La Turandot rivoltata di Hannover
Alla Staatsoper di Hannover Olivia Hyunsin Kim con Turning Turandot punta il dito contro il patriarcato colonialista del melodramma
“We will make Turandot sexy again!”: è la promessa di Olivia Hyunsin Kim, trentaseienne compositrice tedesca di origini coreane, in questa stagione in residenza alla Staatsoper di Hannover. Nel suo lavoro Turning Turandot Hyunsin Kim, andato in scena al Ballhof Eins, il secondo palcoscenico della Staatsoper, promette anche di regolare i conti con il patriarcato che ha dettato le regole nel mondo dell’opera fino a oggi. In realtà, sia la promessa di rendere più sexy Turandot che quella di rivoltare come un calzino l’opera pucciniana e non solo restano nel libro delle buone intenzioni. Già appare piuttosto stravagante la scelta di un’opera, la cui protagonista, con la “fanciulla del West” Minnie, è la sola a sopravvivere nell’ecatombe di eroine pucciniane. Ma poco importa per Hyunsin Kim, perché anche Turandot soffre degli stessi mali di gran parte del repertorio operistico: è razzista, sessista e discriminatoria. E poi, se non muore la protagonista, muore comunque la sua antagonista, perché nei valori della società patriarcale è sempre la donna a dover soccombere. E che dire poi del colonialismo spesso coniugato con esotismo che sa molto di razzismo?
“Abbiamo bisogno di nuove opere che riflettano i contenuti della nostra società attuale. Con personaggi queer e con un background migratorio, con personaggi PoC (People of Color) e le loro esperienze e storie. E con donne la cui motivazione ad agire non venga da un uomo.” Parola di Olivia Hyunsin Kim, che però alla fine musicalmente non si discosta affatto (o comunque pochissimo) dall’originale pucciniano, salvo la variante “queer” di riassegnare i ruoli al sesso opposto. E così Calaf diventa un energico soprano, Liù un fragile tenore e Turandot un virilissimo baritono, il che tutto sommato nemmeno scompagina la classica relazione uomo-donna (con buona pace per il conclamato “queer”) e tantomeno il più classico triangolo del melodramma.
Dunque, la musica resta quella di Puccini, anche se arrangiata (benissimo) da Jacopo Salvatori per piccolo ensemble con pianoforte elettronico, archi e molte percussioni ma niente ottoni. Anche la sequenza dei numeri musicali resta sostanzialmente intatta, con solo qualche taglio – non c’è l’Imperatore, tagliata anche la scena di apertura del secondo atto con Ping, Pong e Pang, comunque presenti, e manca anche la chiusa del finale Alfano – e pochissime interpolazioni, come una breve parentesi techno con Turandot e ancelle prima di “In questa reggia”. Il tutto si consuma in circa 75 minuti senza pausa. Poiché evidentemente il messaggio politico non viene fuori da sé, proprio quando la principessa (qui principe) di gelo intima “Non mi toccar, straniero!” e Calaf risponde “No, il bacio tuo mi dà l'eternità!”, l’azione viene interrotta per lasciare spazio a un monologo del soprano, spalleggiato dagli altri, che elenca tutte le intollerabili nefandezze presenti in quest’opera: “Quando un uomo dice di non essere nulla in quanto schiavo, quando una donna costringe un uomo a baciarla contro la sua espressa volontà, improvvisamente ci risvegliamo”, e ancora: “Proviamo qualcosa di nuovo nel vecchio! Portiamo avanti adattamenti dell'opera! Il patriarcato coloniale deve morire!” Segue finale Alfano con testo modificato che invita alla riappacificazione in chiave anti-patriarcale. Sipario.
Varianti drammaturgiche a parte, lo spettacolo musicalmente è solido grazie all’ispirata direzione musicale di Richard Schwennike alla testa della sparuta compagine della Niedersächsisches Staatsorchester di Hannover, ma anche alla freschezza della giovane compagnia di canto (microfonata) guidata nei ruoli principali da Seungwoo Sun (Turandot), Mengqi Zhang (Calaf) e Pawel Brozek (Liù). Bene anche i ministri Luvuyo Mbundu (Ping), Lluís Calvet i Pey (Pang) e un po’ meno Carmen Fuggiss (Pong ma anche Timur). Ma nel complesso tutto fila come deve.
Il colorato spettacolo diretto e coreografato dalla stessa Olivia Hyunsin Kim per il piccolo palcoscenico del Ballhof Eins è grazioso anche se fatto di poco. Eva G. Alonso disegna per la scena una distesa di fiori e una pedana con un vetro a specchio e tre schermi, che rimandano i video di fiori e sangue di Jones Seitz. I costumi “queer” di Mascha Mihoa Bischoff sono generosi di colori quanto di arioso tulle. Fantasioso il disegno luci di Mario Waldowski.
Troppo ingenuo per essere davvero convincente, troppo poco radicale per essere davvero politico, troppo “carino” per essere davvero dirompente, se questo spettacolo ideologicamente modaiolo funziona è perché in fondo Puccini resta Puccini. E anche perché Turandot sexy lo è già, come dicono i molti spettatori che canticchiano o fischiettano “Nessun dorma” lasciando la sala. Perché allora non fare davvero un’opera nuova?
Pubblico piuttosto numeroso. Applausi per tutti.
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