La Salome senza volto di Barrie Kosky
All’Oper Frankfurt il regista australiano firma un allestimento dell’opera straussiana che raccoglie consensi nonostante una lettura controversa
Lascia una sensazione di irrisolto la Salome che il regista Barrie Kosky ha tenuto a battesimo all’Oper Frankfurt fra grandi consensi. Nemico dichiarato della polvere della routine che si deposita soprattutto sui titoli più frequentati del repertorio operistico, Kosky sembra aver tolto fin troppa polvere finendo per proporre un “non allestimento” della celebre opera di Richard Strauss. Questa Salome è sostanzialmente priva di elementi scenografici, se si eccettua una scatola completamente nera (firmata da Katrin Lea Tag) nella quale tutti gli interpreti sono dissolti nel buio fatto salvo qualche fugace passaggio sotto l’occhio di bue puntato ossessivamente su Salome, primadonna assoluta ma creatura sfuggente e dall’identità indefinibile o, piuttosto, definita di riflesso attraverso gli altri. La ricerca di definizione di sé è soprattutto attraverso il deuteragonista Jokanaan e la sua anomala famiglia, il patrigno Erode e la madre Erodiade, uniche presenze con le quali Salome condivide quel cono di luce. La sua identità sfuggente e mutevole si proietta anche attraverso i costumi, che Salome cambia in continuazione (anche quelli di Katrin Lea Tag) e non certamente per vezzo di primadonna, come sembra definirla in apertura di sipario quel costume bianco con copricapo piumato da diva del muto.
La rimozione di qualsivoglia esotismo di maniera spinge Kosky a rovesciare il senso comune dell’opera di Strauss, specialmente nel grande momento topico della danza dei sette veli, privata della danza danzata (ormai è la nuova norma) e qui mutata in una esaltazione del feticismo pilifero della donna, che lungo tutta la scena estrae dal suo sesso un’interminabile matassa di capelli, quelli di Jokanaan, di cui la donna si dichiara innamorata (“Dei tuoi capelli sono innamorata, Jochanaan … I tuoi capelli, lascia che li tocchi!”). Nei rarissimi momenti in cui sembra rifarsi a rodate convenzioni sceniche, come nel lungo monologo finale di Salome esibito in tutta la sua sfacciata necrofilia con quella testa di Jokanaan grondante sangue dai lunghi capelli, Kosky fa marcia indietro e torna sul tema identitario facendo letteralmente indossare a Salome quella testa come una maschera vuota nella scena finale, ancora una volta sottraendosi alla domanda: chi è Salome?
Idea interessante, ma che lascia il sospetto si tratti piuttosto di un esercizio di teatro, non nuovo nel teatro di Kosky, con qualche eccesso di intellettualismo, che gela la morbosa sensualità dell’opera straussiana sbilanciandola sul piano di un freddo e macabro umorismo. Raffredda parecchio l’azione anche la coreografia espressionista e studiatissima attorno a quell’unico cono di luce, che sollecita gli interpreti ad uno sforzo di straniamento, decisamente spiazzante. È difficile, dunque, dar conto in maniera bilanciata della prova di un cast vocale, privo di eccellenze ma ben assortito e soprattutto funzionale alla personalissima visione del regista. Va reso atto che la protagonista Ambur Braid si spende molto sulla scena, sulla quale è costantemente presente e visibile, mentre sembra talora troppo prudente e trattenuta sul versante vocale, soprattutto nel grande monologo finale dove piacerebbe percepire un abbandono totale al ruolo. Più marcante è parsa la prova di Christopher Maltman, uno Jochanaan dall’imponente cifra vocale. Sconta qualche impaccio la coppia genitoriale di AJ Glueckert e Claudia Mahnke, l’elemento comico in questo allestimento. Un po’ in ombra (è il caso di dirlo) il Narraboth di Gerard Schneider, che si fa notare per il bel colore lirico della prova vocale. Nel resto dal lungo cast, si fa notare lo spiritato quintetto dei giudei, che sono Theo Lebow, Michael McCown, Jaeil Kim, Jonathan Abernethy e Alfred Reiter. Se il nero domina la scena, non è così per la direzione musicale assicurata da una Joana Mallwitzattentissima soprattutto al colorismo di stampo quasi impressionista della ricca tavolozza orchestrale straussiana. Risalta soprattutto il minuzioso lavoro di concertazione, che dà grande risalto al complesso intreccio strumentale e valorizza la grande qualità musicale della Frankfurter Opern- und Museumsorchester.
Sala gremita alla prima, applausi calorosi per tutti.
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