La problematica libertà di Carmen
Al Regio di Parma applausi ma anche qualche dissenso per il nuovo allestimento con la regia di Silvia Paoli e la direzione di Jordi Bernàcer
«…Et surtout la chose enivrante: La liberté! La liberté!» Per Carmen la libertà è una cosa inebriante – anzi, “la” cosa inebriante – lo dice lei stessa, lo canta in faccia a Don José verso la fine del secondo atto del capolavoro di Georges Bizet, e lo ribadisce alla fine: «Mai Carmen cederà! Libera è nata e libera morrà!». Un concetto, quello di libertà appunto, che la Carmen andata in scena al Teatro Regio di Parma pare aver interpretato – soprattutto dal punto di vista della liberà di lettura – in maniera perlomeno problematica.
Questo nuovo allestimento, che ha riportato il titolo francese sul palcoscenico del teatro emiliano dopo 19 anni di assenza, è stato infatti segnato dalla visione registica offerta da Silvia Paoli, già assistente di Damiano Michieletto e alla prima esperienza con l’opera di Bizet, in precedenza autrice di regie per titoli quali La Cenerentola, Le Nozze di Figaro, I Capuleti e i Montecchi, fino ai più recenti Otello, Enrico di Borgogna e Lucrezia Borgia. Come dichiara la regista nelle note del programma di sala: «in questa messa in scena c’è, in particolare per me, la rivelazione di come anche questa sia l’ennesima storia di una donna vista attraverso gli occhi degli uomini: compositore, librettisti, scrittore e soprattutto Don José. Tutta la vicenda è in realtà una soggettiva, è la confessione di un condannato a morte, e quello che viene raccontato si svolge attraverso due morti, quella avvenuta di Carmen e quella decretata di Don José».
Un punto di partenza che ha condotto la stessa Paoli a immergere la vicenda disegnata dal libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy in un’atmosfera compressa, scura e squallida, animata da una sorta di reiterata ossessione di Don José non tanto per la figura di Carmen, quanto per la vicenda in sé e per sé, per i gesti, per le situazioni, per i momenti vissuti di un dramma che non è più l’opera in quattro atti musicata da Bizet, ma la fredda cronaca di un femminicidio avvenuto nell’Italia degli anni Sessanta. Una ricostruzione compilata attraverso una successione di ricordi allucinati sgorgati dalla mente dello stesso Don José, detenuto in carcere presumibilmente in attesa dell'esecuzione della condanna a morte, rievocati anche grazie a una sequenza di proiezioni e filmati in bianco e nero più o meno sfocati. Un approccio che parte quindi a posteriori, dal ricordo, appunto, in soggettiva di Don José e che rappresenta un rimando diretto all’impianto originario del racconto di Prosper Merimée dal quale è stato tratto il libretto dell’opera, espediente che vanta peraltro precedenti illustri come, per esempio, la lettura registica parigina del 1978 di Piero Faggioni con la direzione musicale di Pierre Dervaux.
Ma se, ancora secondo le parole della regista, «l’immagine di Carmen e della loro storia è così assillante che Don José arriva a confondere la realtà con la memoria, tanto da deformare perfino il quotidiano, in una spirale che lo condurrà ad immedesimarsi con ciò che ricorda, a vivere continuamente fra sogno e veglia senza quasi più poterli distinguere», l’uccisione di Carmen diviene non tanto l’atto efferato di un uomo incapace di gestire le proprie pulsioni, quindi di una persona violenta, di un assassino da condannare doverosamente senza appello, ma il gesto esecrabile di uno squilibrato.
Ma Don José (non tanto quello di Merimée, ma quello dell’opera di Bizet) non andrebbe messo nel “recinto” degli psicopatici conclamati – con buona pace, naturalmente, di chi sostiene questa tesi – affetti da patologia e quindi idealmente isolati o isolabili dal resto della società, ma dovrebbe essere riconosciuto come un uomo come tanti – e, per questo, incarnazione di un segnale sociale ancora più allarmante – che si rivela un criminale, una persona che si trasforma in un assassino rispondendo con la violenza ad una realtà che non intende accettare. E se le convenzioni sociali del passato erano basate su un’ottica maschilista che parlava di “amante tradito” o “fidanzato geloso”, oggi sappiamo bene che non è, non può e non deve essere più così. Un assassino è un assassino, punto. Ma, in questo caso, per ribadire tale sacrosanto concetto, l’impressione è che si sia esagerato con tratteggi didascalici e ridondanti che sfiorano il grottesco, immagini e filmati affastellati, moltiplicazioni di alter ego dei personaggi le cui movenze pantomimiche vengono ripetute con reiterata insistenza.
In questo quadro, non è certo l’attualizzazione dell’ambientazione – delineata in maniera coerente con l’impianto generale grazie alle scene di Andrea Belli, ai costumi di Valeria Donata Bettella, alle luci di Marcello Lumaca, ai video di Francesco Corsi e alle coreografie di Carlo Massari/C&C Company – ad aver tolto efficacia a questa messa in scena, ci mancherebbe altro. O ancora, la coerenza drammaturgica qui non è stata minata da una ipotetica lettura anti-maschilista, approccio che annovera peraltro significative analisi tra le quali ricordiamo quella proposta nel 1991 da Susan McClary in un’ottica di “semiotica musicale del genere” in cui la studiosa sostiene che «la musica di Carmen (costruita da Bizet – non c’è voce di donna in questo lavoro) è fatta per essere innegabilmente più seducente, più potente del discorso beneducato della musica classica europea maschile che connota Don José (ovviamente anch’esso costruito da Bizet)».
Piuttosto, il senso di irrisolto che ci è parso emergere da questa messa in scena è da attribuirsi, oltre alla già ricordata ridondanza di simbologie, alla compressione di passaggi ed elementi narrativi: alcuni scambi condivisi tra i personaggi, alcune situazioni di narrazione collettiva sono state in qualche modo celate dal racconto scenico. Una lacuna che riporta alla mente alcune considerazioni annotate da Carl Dahlhaus proprio in merito alla Carmen di Bizet: «a differenza di quanto avviene nel teatro di prosa, nell’opera soltanto quanto si vede e non quanto è raccontato ha efficacia drammaturgica […]».
Uno iato, quello tra lettura scenica e materia drammaturgica originaria, che si è riverberato anche sul versante musicale, almeno in occasione della serata inaugurale che abbiamo seguito, con Jordi Bernàcer che ha diretto con consapevole mestiere – al di là di qualche sfasamento ritmico-timbrico e rinunciando alle variegate nuance espressive che innervano la partitura – le compagini rappresentate dall’Orchestra dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”, dalla Banda dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, oltre al Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani e il Coro di voci bianche del Teatro Regio di Parma preparato da Massimo Fiocchi Malaspina.
Tra gli interpreti Martina Belli e Arturo Chacon Cruz hanno restituito, rispettivamente, una Carmen e un Don José forse un poco provati da una presenza in scena oltremodo esposta, ma in grado di crescere in sicurezza e credibilità nel corso della recita, affiancati da Marco Caria nei panni di un Escamillo non più che adeguato e la cui figura rappresentava l’unica – e se vogliamo, un poco caricaturale – concessione ai soliti e oleogarfici cliché spagnoleggianti. Laura Giordano ha incarnato una Micaëla nel complesso ben tratteggiata e protagonista di un significativo successo personale, mentre completavano il cast Armando Gabba (Dancairo), Saverio Fiore (Remendado), Gianni Giuga (Morales), Massimiliano Catellani (Zuniga), Eleonora Bellocci (Frasquita), Chiara Tirotta (Mercedes).
Per la cronaca, la maggioranza del pubblico presente al Teatro Regio di Parma ha applaudito alla fine tutti gli artisti impegnati – e in modo particolare i protagonisti vocali – mentre una parte del loggione ha contestato soprattutto le scelte registiche, riproponendo nel corso della recita frammenti di “botta e risposta” che rappresentano l'ormai consolidato colore locale di questo teatro.
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