La prima volta di Eduardo e Cristina al Rossini Opera Festival
La singolare opera di Rossini è stata rappresentata a Pesaro nella recentissima edizione critica
Il Rossini Opera Festival ha inaugurato la sua quarantaquattresima edizione con Eduardo e Cristina, “dramma per musica” rappresentato il 24 aprile 1819 al Teatro San Benedetto di Venezia. Così il festival pesarese ha completato la rappresentazione di tutte le opere di Rossini secondo l’edizione critica promossa dalla Fondazione Rossini, che ha richiesto un lungo lavoro ad Andrea Malnati e Alice Tavilla per superare i problemi causati dal fatto che di quest’opera ci sono giunte varie versioni manoscritte diverse tra loro ma non la partitura autografa, perduta o più probabilmente mai esistita. Infatti Rossini si limitò a spedire da Napoli a Venezia sintetiche istruzioni per indicare gli aggiustamenti che i copisti avrebbero dovuto fare per adattare alla loro nuova funzione una serie di pezzi estratti principalmente da opere precedenti sue (principalmente Ermione ed Adelaide di Borgogna, che erano state da poco rappresentate la prima a Napoli e la seconda a Roma con modesto esito e non erano note al pubblico veneziano) e anche altrui. Ma c’è pure qualche parte nuova composta ad hoc. Rossini adottò questa soluzione perché non ebbe il tempo di scrivere l'opera che si era impegnato a consegnare al teatro veneziano, essendo già impegnatissimo a Napoli, dove tra il dicembre 1818 e l’aprile 1819 compose due opere nuove (Ricciardo e Zoraide ed Ermione), il nuovo terzo atto del Mosé in Egitto e due ampie cantate encomiastiche, rispettivamente per la guarigione del re di Napoli e per l’arrivo a Napoli dell’imperatore d’Austria. Dunque si trasse d’impaccio ricorrendo ad una prassi che nel secolo precedente era comune ma che cominciava ad essere non molto apprezzata. Lo stesso Rossini ne era consapevole e infatti, quando nel 1852 Ricordi fece un’edizione celebrativa di tutte le sue opere, si irritò moltissimo perché così tutti avrebbero potuto accorgersi delle frequenti riutilizzazione dello stesso pezzo in diverse sue opere: si giustificò ricordando che “il tempo e il denaro che mi si accordava per comporre era sì omeopatico, che avevo appena il tempo di leggere la così detta Poesia da musicare”.
La questione non è la liceità della riutilizzazione di parti di opere precedenti in un’altra opera, ma il risultato ottenuto con tale procedimento. Le comte Ory è fatto quasi interamente con pezzi presi dal Viaggio a Reims, ma è un capolavoro. Invece Eduardo e Cristina sembra un abito di Arlecchino cucito con pezzi diversi e rivela falle evidentissime. Chi volesse farlo passare per un capolavoro paragonabile agli altri capolavori di Rossini farebbe un torto innanzitutto a Rossini stesso. Le opere serie di Rossini hanno infatti una saldezza strutturale che qui manca totalmente. Non solo i “numeri” ma gli atti interi delle sue opere - in particolare le opere serie del periodo napoletano - rivelano infatti l’architettura perfettamente calibrata sia dei singoli “numeri” sia degli atti interi, che combinano momenti diversi e contrastanti attentatamente bilanciati per creare un’unità musicale e drammatica che cresce dall’inizio alla fine di ogni atto. Possono esserci degli autoimprestiti ma scelti a ragion veduta: il crescendo dell’aria della calunnia del Barbiere di Siviglia funziona perfettamente anche quando lo ascoltiamo nel momento più drammatico dell’Otello. Se però gli autoimprestiti diventano troppi, si può legittimamente pensare che la ragione sia il bisogno di fare non in fretta – Rossini era sempre costretto a lavorare in fretta – ma molto più che in fretta, e il risultato ne risente.
A Pesaro si sono dunque ascoltati alcuni pezzi che erano pregevoli nelle opere da cui provengono e tali sostanzialmente rimangono anche in Eduardo e Cristina, nonostante i tagli, le modifiche e l’inserimento di parti di altra musica presa qua e là, che spesso li alterano notevolmente e non in meglio. A soffrire meno di questo trattamento sono le arie, in particolare quelle di Carlo (tenore) verso la fine del primo atto e quelle di Eduardo (contralto) e Cristina (soprano) nel secondo. Splendide anche la grandiosa architettura musicale e la continua crescita di tensione del finale, che è in realtà il finale - leggermente modificato - di un’altra recente opera napoletana di Rossini, Ricciardo e Zoraide. Il problema di Eduardo e Cristina è che ogni “numero” se ne sta a sé, non lega con quelli che lo precedono e lo seguono, anche perché sono collegati o piuttosto separati da semplici recitativi accompagnati dal cembalo (lasciati da Rossini ad un ignoto ed evidentemente inesperto collaboratore) e non dai potenti e scultorei recitativi drammatici accompagnati dall’orchestra che saldavano i grandiosi “numeri” in cui si articolavano le opere serie napoletane di Rossini. Un altro problema è l’inconsistenza drammatica del libretto, che non fa altro che accumulare le solite frasi retoriche ed esagerate tipiche della peggiore letteratura librettistica; aprendolo a caso, alle pagine 114 – 115 leggiamo “qual fulmine improvviso piove sul capo mio”, “empia consorte,” “crudele affanno”, “destin tiranno”, “ira, sdegno, furore, crudeltade tutti uniti vi bramo con me”, “crude ritorte”, “tremendo caso”, “fatal dolore”, eccetera eccetera.
No, questo non è affatto un capolavoro. D’altronde, se “quandoque bonus dormitat Homerus” anche Rossini potrà ben sonnecchiare talvolta.
Nella ruolo en travesti di Eduardo tornava al festival dopo vari anni Daniela Barcellona: la voce, sebbene il tempo trascorso abbia forse lasciato qualche leggerissimo segno, resta sempre miracolosa e soprattutto il suo canto è un modello assoluto di perfetto stile rossiniano, tanto che, quando è lei a cantare, quasi si dimenticano le debolezze di questo patchwork. Ad interpretare Cristina era Anastasia Bartoli: all’inizio, probabilmente per l’emozione del debutto, la voce non si espandeva e gli acuti erano un po’ tirati, ma poi ha dimostrato di essere in possesso di una voce al di fuori del comune, ampia, timbrata, capace di coprire l’amplissima estensione richiesta dalla sua parte (che in realtà mette insieme due parti originariamente scritte per due voci di soprano molto diverse) senza che disturbi più di tanto qualche nota appena meno spettacolare all’estremo del grave e dell’acuto. Ha anche grande temperamento e lo dimostra sia nelle pagine distese e liriche sia in quelle agitate e drammatiche, che vengono però affrontate con un approccio che sembrerebbe più adatto a Verdi; ma è ai suoi primi passi in Rossini ed è comprensibile che non ne abbia ancora pienamente assimilato lo stile. Comunque un debutto più che promettente. Re Carlo di Svezia non è il solito personaggio “cattivo” sempre totalmente cattivo ma è più articolato e vario – o forse contraddittorio - probabilmente perché anche nel suo caso Rossini ha messo insieme parti concepite per due personaggi diversi: non c’è bisogno di dire che anche questa è una parte molto ardua, ma Enea Scala l’affronta con totale sicurezza e in modo irreprensibile. Alla sua prima opera di Rossini al festival, il giovane Grigory Shkarupa ha fatto un ottimo debutto nella parte di Giacomo, piuttosto acuta per un basso. Bene Matteo Roma nella piccola parte di Atlei.
Il direttore avrebbe potuto cercare di attenuare i dislivelli tra le diverse tessere di questo mosaico musicale, ma Jader Bignamini non sembra essersene curato. Decisamente fastidioso il clamore delle percussioni, che ad ogni loro intervento rendevano quasi inudibile il resto dell’orchestra: vero che Rossini non le risparmia e sicuramente anche l’acustica della Vitrifrigo Arena ha le sua responsabilitè, ma est modus in rebus. Abbiamo sentito questo direttore in prove decisamente migliori. Anche la prestazione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è stata meno accurata del solito ma si è comunque assestata su un livello decisamente elevato.
La firma di Stefano Poda era riconoscibilissima in ogni aspetto della parte visiva, regia, scene, costumi, luci e coreografie. Dire che abbia realizzato una messa in scena di Eduardo e Cristina non sarebbe esatto: in realtà ha realizzato un proprio spettacolo, con le caratteriastiche tipiche delle sue produzioni, usando la musica di Rossini come sottofondo. Detto questo, che non è un dettaglio di poco conto, lo spettacolo era anche bello da vedere. Il palcoscenico era chiuso in fondo da una parete gessosa, in cui era incastonata una miriade di frammenti di statue antiche -teste, braccia, gambe - mentre ai due lati altre statue antiche – erano adagiate interestavano in pile di teche di vetro che fungavano da quinte. Ma l’attenzione era catturata soprattutto dalle onnipresenti coreografie, belle da vedere ma enigmatiche da interpretare, ammesso che volessero avere un significato. Inizialmente corpi nudi (ma pudicamente coperti da mutande) dal colore cadaverico sembrano uscire dalla tomba e cercare di muovere i primi passi, quasi trascinandosi con movimenti faticosi e convulsi: un sofisticato rimando agli affreschi del giudizio universale di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto? Ma perché quesi stessi danzatori compaiono poco dopo indossando giacca e pantaloni molto borghesi? E perché sono di nuovo nudi nel secondo atto? Quanto alla regia nel vecchio senso del termine, forse non più accettato dai registi moderni, non ce n’è quasi traccia: i cantanti stanno per la maggior parte del tempo immobili sul palcoscenico, tutt’al più spostandosi di qualche metro in una direzione o nell’altra e compiendo i gesti più essenziali previsti dall’azione.
È significativo che gli applausi del pubblico siano stati entusiastici dopo i primi numeri, ma siano andati diminuendo d’intensità nel corso dello spettacolo, fino ad essere non più così entusiastici – ma sempre calorosi – alla fine, quando sono continuati giusto per il tempo necessario alla macchinosa cerimonia dei ringraziamenti inscenata da Poda, spegnendosi poi piuttosto rapidamente rispetto alle consuetudini dei ferventi rossiniani che frequentano il festival
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