La maratona beethoveniana di Saleem Ashkar merita una medaglia
In una giornata il pianista ha eseguito una selezione di Sonate che riassume l’intera arte di Beethoven
La stagione cameristica dell’Accademia di Santa Cecilia si è inaugurata con una maratona beethoveniana di Saleem Ashkar, che si è sobbarcato tre concerti nello stesso giorno, alle 12, alle 17 e alle 20.30. Lui non ha dimostrato il minimo segno di stanchezza ma non tutti gli ascoltatori non hanno la sua resistenza o più semplicemente alcuni hanno trovato scomodo pendolare tre volte in un giorno tra casa e auditorium e quindi si sono accontentati di uno o due concerti. Per quanto mi riguarda, avendo scelto di seguire il primo e l’ultimo concerto, mi sono molto pentito di averso perso l’altro, sia per la qualità dell’interpretazione di Ashkar sia perché l’ascolto ravvicinato di un gruppo di sonate – diversamente dall’ascolto di una sonata isolata o anche del ciclo completo ma distribuito in più giorni – dimostra come sonate vicine possano essere molto differenti tra loro e come viceversa alcuni caratteri fondamentali dell’arte beethoveniana ritornino in sonate tra loro lontane. Ma per ottenere questo risultato è essenziale che la scelta delle sonate sia fatta con l’acutezza dimostrata da Ashkar, che in sole otto sonate il pianista ha percorso l’intero arco creativo di Beethoven, iniziando con la Sonata op. 2 n. 3 e finendo con l’op. 110, seguendo un percorso non rigidamente cronologico.
La Sonata op. 2 n. 3 è un’introduzione perfetta a tutto il Beethoven che verrà: i due temi principali dell’esposizione sono ancora settecenteschi (d’altronde questa sonata è del 1796) ma già s’intuisce il Beethoven futuro nel modo in cui questo movimento viene portato a sviluppi imprevedibili, raggiungendo momenti cupi e potenti. Ma non c’è alcun bisogno di ricorrere ai soliti aggettivi usati per Beethoven, come “appassionato” o “titanico”, perché si ascolta un discorso puramente musicale, com’è nello stile classico. E Ashkar mette appunto in risalto la struttura musicale del movimento, il che significa dare il giusto risalto all’originalità degli sviluppi, dei contrasti, delle svolte e dei ritorni, ma senza mettere in crisi la continuità e la saldezza del discorso. In questo “Allegro con brio” c’è in nuce il Beethoven futuro o almeno una parte del Beethoven futuro, mentre l’altra parte la scopriamo nel successivo “Adagio”, dalla melodia purissima, disincarnata, eterea.
In questi due movimenti c’è anche tutto Ashkar, che offre di Beethoven un’interpretazione originale ma non soggettiva e tanto meno arbitraria - non sovrappone mai se stesso alla musica - che parte da una lettura del testo attenta, profonda e spesso rivelatrice e quindi presenta Beethoven innanzitutto come un genio essenzialmente musicale, scrostandolo da un romanticismo di second’ordine, che invece di ascoltare veramente la sua musica vaneggia a proposito di destino che batte alla porta o – che è ancora peggio – di chiaro di luna.
La seconda sonata in programma in questa maratona era proprio la Sonata op. 27 n. 2, nota come “Al chiaro di luna”, un titolo apocrifo e fuorviante di cui si dovrebbe proibire l’uso. Oltretutto ce ne sarebbe un altro, “Quasi una fantasia”, questo sì autentico e molto più pertinente. Gli appunti di Beethoven rivelano che lo spunto inziale deriva dall’accompagnamento orchestrale alla morte del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart, quindi non c’è nulla di sognante e tanto meno di sdolcinato. Le terzine non raffigurano le acque lievemente ondeggianti di un lago illuminato dalla luna – questo dovrebbe ormai essere chiaro a tutti – ma sono una meditazione dolente, luttuosa, senza nessuna consolazione possibile. E al grave compare anche un ritmo di marcia funebre. Ashkar ne dà una lettura perfetta, senza sdolcinatezze e sbrodolature romantiche, ma scarna ed essenziale e per questo ricchissima di contenuto musicale ed anche estremamente coinvolgente.
Nel brevissimo secondo movimento Ashkar è un po’ più lento della maggioranza degli altri interpreti e molto meno leggero e scherzoso: ne fa così non tanto una pausa di alleggerimento tra i due movimenti estremi ma un collegamento tra la desolata tristezza del primo e il terzo, che egli affronta a grande velocità, come un vento glaciale che spazza via ogni cosa. Per la prima volta ci si accorge che questo “Presto agitato” potrebbe essere stato una fonte di ispirazione per il “Presto” che segue la “Marcia funebre” nella Sonata n. 2 di Chopin. E forse questo voleva dire Ashkar quando come bis ha suonato proprio Chopin, con una scelta apparentemente incongrua in un ciclo interamente consacrato a Beethoven.
Non c’è bisogno di altro per capire che la bellezza delle interpretazioni beethoveniane di questo quarantaquattrenne pianista – che ci auguriamo di risentire presto – sta nel farci riscoprire che in Beethoven nulla è scontato e che la sua musica non è mai un ascolto facile e rilassante ma lancia sempre una sfida all’ascoltatore, va sempre oltre le regole, si spinge al limite e l’oltrepassa in direzioni imprevedibili e geniali, come nessun altro nella storia della musica.
Senza assolutamente proporsi come un divo e senza mai cedere a soluzioni interpretative fatte per strappare l’applauso, Ashkar ha ottenuto gli applausi forti e convinti del pubblico che esauriva l’auditorium, cioè appena duecento persone, mentre la sala ne potrebbe contenere duemilasettecento. Le tantissime poltrone vuote mettevano tristezza ma queste limitazioni, necessarie per contrastare l’epidemia ma forse eccessive, sono state attenuate poche ore dopo.
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