La glaciale potenza poetica di “The turn of the screw”
A Reggio Emilia è andata in scena una nuova produzione dell’opera di Britten come anteprima del Festival Aperto 2023
È apparso come proposta inattesa, presentata in questa primavera inoltrata e singolarmente fredda, il nuovo allestimento di The turn of the screw, opera di Benjamin Britten andata in scena nei giorni scorsi al teatro Ariosto di Reggio Emilia quale anteprima del Festival Aperto 2023, nell’ambito di una nuova produzione voluta dalla Fondazione I Teatri.
E un senso di freddo distacco, quasi glaciale nella sua composta misura narrativa, ha attraversato questa nuova lettura scenica del lavoro che il compositore britannico ha tratteggiato sul libretto che Myfanwy Piper ha tratto dall’omonimo romanzo di Henry James, andato in scena per la prima volta a Venezia nel settembre 1954 nell’ambito del XVII Festival internazionale di musica contemporanea che lo aveva commissionato.
Un successo, quello che ha accolto il debutto veneziano di quest’opera, che testimonia l’efficacia immediata di un lavoro che porta in sé la quintessenza della poetica britteniana, costruita attraverso quella minuziosa cura artigianale che plasma, con il cesello di una tecnica compositiva duttile e curiosa, una materia musicale nella quale vengono miscelati stilemi che mescolano le epoche storiche differenti, fuse in un linguaggio al tempo stesso colto e originale.
Un tratto della personalità di Britten, questo, che si innesta sulla cifra rappresentata dal dramma ineluttabile, senza riscatto ne assoluzione, che abita il senso di immanente solitudine che The turn of the screw testimonia in maniera emblematica, come ha annotato Fedele D’amico in uno scritto apparso a pochi giorni dalla morte del compositore inglese, avvenuta il 4 dicembre 1976: «Figure musicali semplici e dirette sono quasi sempre, qualsiasi complicazione poi le avvolga, alla base di Britten: personaggi positivi da trascinare ad avventure anche inquietantissime, ma non mai a predita della loro identità. E su tutte primeggiano quelle che dànno voce al suo culto per il fanciullo, l’innocenza: un’innocenza ora cantata in quanto tale, più spesso drammatizzata come conculcata, profanata, offesa. […] Un esempio tipico Il giro di vite; dove l’insidia del demoniaco appare così sinistra appunto perché investe voci infantili dal timbro immutabilmente cristallino, immunizzando le categorie morali da ogni equivoco e la contemplazione dell’orrore da ogni compiacimento».
Qualche mese prima della morte di Britten, nel giugno di quello stesso 1976, sempre D’Amico rilevava anche la naturalezza con la quale il materiale musicale di questo compositore riesca ad attingere non tanto dalle opere in sé ma dai caratteri espressivi di compositori quali Mozart, Bach o Vivaldi. Un carattere, questo, che anche in questa occasione è emerso, per esempio, nei rimandi ideali ad un repertorio di una classicità parossisticamente scolastica ed evocato attraverso il segno obliquo e a tratti distorto di “The Piano”, quattordicesima delle sedici scene e un prologo nelle quali si articola quest’opera.
Un tassello significativo della lettura di questa partitura restituita dalla direzione di Francesco Bossaglia – capace di governare con accorto equilibrio la delicata densità di una materia musicale che si dipana tra tratteggi melodici ora morbidi ora più affilati, variazioni seriali degli intermezzi e impasti timbrici cangianti – impegnato alla guida di un Icarus Ensemble pronto a offrire una reattività strumentale nel complesso attenta e puntuale.
Su questa solida base musicale si sono mossi i personaggi dell’opera: Peter Quint (Florian Panzieri, interprete anche del Prologo), il fantasma che con l’altro spirito rappresentato da Miss Jessel (Liga Liedskalnina) infesta la grande casa nella campagna inglese nei pressi di Bly, dimora dove i fratelli Miles (Ben Fletcher) e Flora (Maia Greaves), orfani di entrambi di genitori vivono affidati alle cure della governante Mrs. Grose (Chiara Trapani) e della nuova Istitutrice (Laura Zecchini), da poco incaricata di educare due bambini dal loro zio e tutore, con la clausola tassativa di non rivolgersi a lui per nessuna ragione.
Ed è proprio questo distacco da un altrove irraggiungibile, questo isolamento che appare siderale lontananza da una società – incarnata simbolicamente dallo stesso zio, ma anche dalla governante se vogliamo – che ipocritamente non vuole sapere cosa accade in quella casa, che amplifica la portata drammatica di questa opera, fino all’atto finale rappresentato dalla morte di Miles, vittima sacrificale di un’innocenza minata dal fantasma di una violenza indicibile, che non si può (non si deve) raccontare. Un carattere, quello espresso da quest’opera, al quale hanno contribuito con bell’impegno tutti gli interpreti qui coinvolti, a partire dai due bambini – oltre al Miles di Ben Fletcher, significativa in particolare per densità vocale la Flora di Maia Greaves – fino all’Istitutrice di Laura Zecchini, capace di tratteggiare con misurata intensità il proprio personaggio.
Fabio Condemi (regia, ideazione scene e costumi) e Fabio Cherstich (scene e drammaturgia dell’immagine) – coadiuvati da Gianluca Sbicca (costumi) e Oscar Frosio (luci) – hanno immaginato un impianto scenico funzionale, dove i differenti elementi – tra spazi fissi, immagini proiettate e la semovente struttura centrale che si allontanava e avvicinava al proscenio alla stregua di un "effetto zoom" fisico – sono stati integrati e giustapposti come in una sorta di ideale montaggio filmico, uno scorrere di inquadrature visive capaci di assecondare il racconto parallelo tra la vicenda vera e propria e la visione di un osservatore esterno, un detective che indaga su questa storia misteriosa e inquietante.
L’attento pubblico presente alla “prima” ha salutato con convinti e meritati applausi tutti gli artisti impegnati.
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