Il vecchio leone di San Marco

Trionfo personale per Placido Domingo nei Due Foscari di Giuseppe Verdi al festival del Maggio Musicale Fiorentino

I Due Foscari (Foto Michele Monasta)
I Due Foscari (Foto Michele Monasta)
Recensione
classica
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
I Due Foscari
22 Maggio 2022 - 03 Giugno 2022

Quattromila e cento recite, tante ne ha fatte Placido Domingo dall’inizio della carriera alla sera di domenica 22 maggio 2022. Questo il dato incredibile riferito al pubblico dal sovrintendente Alexander Pereira (con tanto di esplosione di bombe di coriandoli dorati) dopo la prima, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino,  dei Due Foscari, in cui Domingo interpretava la parte di un personaggio a lui coetaneo, il vecchio doge di Venezia Francesco Foscari, che campeggia con le sue contraddizioni e le sue fragilità al centro di questo dramma veneziano, tratto da Byron.

   L’opera è normalmente annoverata fra gli esiti forse non memorabili degli “anni di galera” verdiani, e però resta impressa al nuovo ascolto proprio per la sua fosca tinta, misteriosa e notturna, evidente soprattutto in certi passaggi strumentali affidati ai timbri gravi dell’orchestra (come il bel preludio al secondo atto, con Jacopo Foscari in carcere, tormentato dallo spettro del Carmagnola) e appunto nel tratteggio verdiano di Francesco, angosciosamente diviso fra amor paterno per il figlio Jacopo, condannato all’esilio, e fedeltà alla patria e alle sue occhiute, sospettose e vendicative magistrature, fino alla tragica morte di padre e figlio.

   Di fatto, nell’acustica assai favorevole ai cantanti della nuova Sala Mehta da mille posti, e con il podio presidiato dall’esperto Carlo Rizzi, Domingo era in un ruolo che addirittura si avvantaggiava di certe fragilità di mezzi vocali la cui tenuta, lo sottolineiamo con forza, pare comunque strabiliante, e poi Domingo era sorretto dalla comunicativa e dalla profonda verità espressiva di sempre. Maria José Siri, con i suoi passaggi incisi al bulino e gli acuti lucenti, affrontava con grande spavalderia il ruolo della nuora e moglie di Francesco e Jacopo, Lucrezia Contarini. Lo Jacopo di Jonathan Tetelman, tenore attualmente di notevole rinomanza internazionale, ci è sembrato dotato di grandissima prestanza vocale e scenica e di un timbro assai bello, ma forse al limite di quell’estroversione espressiva che un tempo si chiamava gigioneria, che non si armonizzava del tutto con la sobrietà del dettato tragico verdiano. Molto convincente il giovane basso-baritono Riccardo Fassi, il cattivo della situazione, il perfido e vendicativo Jacopo Loredano.

   Anche la messinscena era condizionata dalle peculiarità di una sala nata come auditorium senza gli apparati necessari alla scenografia teatrale, ed era stata risolta dallo scenografo e costumista Luigi Perego con un elemento rotante, un enorme parallelepipedo che evocava con raffinatezza di suggestioni visive i diversi interni ed esterni, mescolando peraltro nell’ideazione dei costumi le tipiche zimarre veneziane a suggestioni diverse, mantelli ed elmi alla Dart Fener, merletti rossi e azzurri per i danzatori che nella scena della regata hanno realizzato la coreografia di Cristiano Colangelo per il ballabile dei gondolieri. La regìa dell’esperto Grischa Asagaroff si ispirava con fedeltà alla gestualità drammatica della pittura storica alla Hayez.

Alla fine, successo vivissimo per tutti, ma con un particolare tributo d’affetto, com’era giusto, anzi un autentico trionfo, a Placido Domingo. 

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