Il tour d’addio di Natalie Dessay
Splendido concerto del soprano francese, il cui spirito e la cui voce sono ancora straordinariamente giovani
Con questo concerto intitolato “Paroles de femmes” Natalie Dessay sta compiendo quello che si dice sia il suo tour d’addio, che, come in genere avviene in questi casi, durerà mesi, per poter salutare i suoi ammiratori di mezzo mondo. Solo due erano le tappe di questo suo tour in Italia, a Trento, dove è stato allo stesso tempo un debutto e un addio, e a Roma, dove la Dessay aveva già cantato in alcuni concerti all’Accademia di Santa Cecilia alla fine degli anni Novanta, nel periodo più fulgido della sua carriera. All’incirca negli stessi anni aveva cantato alla Scala nei Contes d'Hoffmann e nella Sonnambula, le uniche due opere da lei interpretate sulle scene italiane. In Italia in effetti non ha cantato spesso, ma era ed è ancora adorata degli appassionati del bel canto, come ultima rappresentante di quell’eletto gruppetto di soprani di coloratura in grado di salire con assoluta facilità ad altezze vertiginose, sempre supremamente leggeri, brillanti ed eleganti, che la Francia ha prodotto nel secolo scorso, a cominciare dalla leggendaria Lily Pons: è un mondo che finisce con la Dessay.
Se la Dessay ha cantato poco in Italia è anche perché la sua carriera è stata travagliata da problemi di salute. Un polipo alle corde vocali l’ha fermata per un anno nel 2002. Poi ha dovuto rimodularsi in un repertorio dalle estensioni acute meno vertiginose. Nel 2010 ha avuto nuovi problemi, che l’hanno spesso costretta a disdire i suoi impegni, finché nel 2013 ha annunciato di lasciare l’opera e di dedicarsi al teatro (d’altronde aveva cominciato come attrice) e alla chanson.
Ma sbaglierebbe totalmente chi pensasse che in questi suoi concerti d’addio (qui si riferisce di quello alla IUC di Roma) si siano ascoltati i ruderi di una voce. La Dessay è oggi rinata come la fenice, è un soprano lirico-leggero (quindi senza i sovracuti d’un tempo) dalla voce paradossalmente giovane per una cantante nata nel 1965: è una voce limpida, duttile, timbrata, senza fastidiosi vibrati, talvolta appena un po’ a disagio in qualche scomoda frase nel registro medio-grave. E la musicalità, l’eleganza, la sensibilità, l’intelligenza dell’interprete sono le stesse d’un tempo, anzi si sono ulteriormente affinate.
Il programma era diviso nettamente in due parti. La prima era interamente dedicata a Lieder di tre compositrici tedesche. L’introduzione pianistica del primo LIed di Fanny Mendelssohn-Bartholdy potrebbe essere stata scritta dal fratello Felix, ma poi la personalità della sorella emerge dalla scelta di testi tristi e dolenti, espressi con una linea vocale introversa e sofferente, che non si abbandona mai alla melodia: forse vi si rispecchia la vita stessa della compositrice, che non fu affatto felice, anche e soprattutto per gli ostacoli che i genitori (ma non il fratello) posero alla sua attività artistica.
L’argomento dei Lieder di Clara Wieck Schumann scelti dalla Dessay è invece l’amore romanticamente ardente, sereno o tempestoso che sia, ma comunque pieno di vita, a differenza che nei Lieder della Mendelssohn. E anche come compositrice Clara è più felice di Fanny, più sicura di sé, più realizzata. La terza compositrice è Alma Schindler Mahler, la donna più bella di Vienna, che sposò o fu l’amante degli artisti più importanti della Vienna del tempo. Dunque una donna ricca di fascino e anche di talento, autrice di Lieder interessanti, che forse volevano essere à la pâge e invece oggi appaiono un po’ futili e retro. Era un interessantissimo assaggio della musica di tre compositrici tutt’altro che trascurabili, interpretate dalla Dessay con attenzione, musicalità, eleganza ma anche con un po’ di freddezza, forse perché il tedesco non è la sua lingua, e si sente.
Ovviamente quando passa alla musica francese il suo modo di porgere la frase diventa molto più naturale e tutto il suo canto acquista un fascino irresistibile. Dapprima ha cantato Chanson perpétuelle di Ernest Chausson su testo di Charles Cros, che è una dichiarazione d’amore d’una donna ad un innamorato lontano. Vi si trova la conferma che Cros aveva un grande talento per le scienze ma era un modesto poeta e che Chausson era un musicista raffinato e un anticipatore di Debussy, ma che egli stesso non vedeva chiaramente quel che cercava: la Dessay ne trae tutto quel che d’interessante ne rimane ancora oggi, e non è poco. Da questo connubio irrisolto tra tardoromanticismo e preimpressionismo si passava alla tragica ironia della Dame de Monte-Carlo di Francis Poulenc su testo di Jean Cocteau: è la stessa coppia cui dobbiamo quel capolavoro del Novecento che è La voix humaine. Anche questa potrebbe essere definita una “tragedia da camera”, ma qui prevale la perfida, atroce ironia sulla sorte di una vecchia giocatrice d’azzardo, che ha avuto momenti splendidi – bellezza, ricchezza, amanti – ma a cui ormai non resta che annegarsi nel mar e di Monte Carlo. Perfida e ironica è anche la Dessay, che sull’ultima parola piazza la più lunga “corona” che si sia mai sentita, talmente lunga che ad un certo punto il pubblico comincia a ridere, facendo annegare la vecchia protagonista nel ridicolo prima ancora che nel mare.
Poi appena un minuto di musica di Debussy, ma miracoloso e indimenticabile: l’inizio della prima scena del terzo atto di Pelléas et Mélisande. La Dessay è stupefacente nel trasformare in una jeune fille en fleur proustiana questa fanciulla un po’ manierata, che pettina i suoi lunghi capelli immersa in pensieri o piuttosto in sogni vaghi e indeterminati. Segue l’aria di Chimène dal Cid di Massenet, in cui la Dessay esprime delicatamente le sfumature psicologiche e le delusioni amorose di questa non più giovane donna. E infine l’aria dei gioielli del Faust di Gounod, in cui senza sforzo ritrova gli acuti degli anni d’oro della sua giovinezza. Ma non è finita qui, perché come bis la Dessay regala al pubblico “Porgi amor” dalle Nozze di Figaro.
Dispiace che resti spazio solamente per una rapida menzione di Philippe Cassard, ottimo partner pianistico della Dessay.
Mettendo da parte l’atmosfera sempre un po’ malinconica delle serate d’addio, questo è stato un concerto splendido, fresco, ricco di nuove scoperte, pieno di vita e d’entusiasmo, paradossalmente giovane, cui il pubblico dell’Istituzione Universitaria dei Concerti – che non è certo formato da melomani e nostalgici delle vecchie glorie – ha risposto con crescente partecipazione, concludendolo con applausi entusiastici.
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