Il Teatro La Fenice riparte da Mascagni
Dopo la pausa estiva riparte la stagione del teatro lirico veneziano con un nuovo allestimento di “Cavalleria rusticana”
Sceglie un grande classico come Cavalleria rusticana il Teatro La Fenice per la ripresa di stagione dopo la pausa estiva. Il melodramma in un atto di Pietro Mascagni viene presentato insolitamente “scoppiato” dal partner abituale I pagliacci di Leoncavallo, che nel teatro veneziano non è mai stato comunque la norma. Presenza regolarmente ma mai troppo di frequente, nella storia del teatro veneziano Cavalleria rusticana ha fatto serata da sola già dalla prima rappresentazione nel 1891, preceduta dalla suite orchestrale dell’Arlesienne di Georges Bizet, in un allestimento nel 1928 con la direzione del compositore e l’intero paese di Vizzini, luogo nel quale è ambientata la novella di Verga (in seguito, anche dramma per la Duse come Santuzza) alla base del libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci, ricostruito sul palcoscenico all’aperto di Piazza San Marco, e in una serata di gala nel 1940 ancora sotto la direzione di Mascagni con altre sue musiche come contorno. Altrimenti, Leoncavallo a parte, ha avuto accoppiamenti occasionali con anche insoliti atti unici come Gianni Schicchi di Giacomo Puccini nel 1927 e ancora nel 1980, Madonna Imperia di Franco Alfano nel 1942,La via della finestra di Riccardo Zandonai nel 1949, fino Šárka di LeošJanáček in occasione dell’ultimo allestimento nel teatro veneziano nel 2009.
Assai meno fluida è invece la configurazione della storia di amore, onore e vendetta di questo melodramma, che continua a essere fra i più amati dal pubblico, come conferma anche il calore riservato alla prima della nuova produzione del Teatro La Fenice, affidata per la parte visiva agli allievi della Scuola di Scenografia e Costume dell’Accademia di Belle Arti veneziana, partner del teatro lirico veneziano da diverse stagioni. La regia, invece, è nelle mani di un regista di lunga esperienza come Italo Nunziata, che immagina la vicenda come un flashback, suggerito, già durante il preludio dietro al sipario semitrasparente, dall’immagine del cadavere sistemato su un tavolo e trasportato fuori scena da quattro portatori. È una Sicilia non oleografica e aggiornata agli anni Cinquanta del secolo scorso, come rivelano gli eleganti costumi (ma ben poco rusticani) disegnati da Anna Poletto. È anche una Sicilia con un cuore arcaico che, prima ancora che la vestizione rituale per la Pasqua e la processione con la grande statua barocca di Cristo portato a spalla, rivelano le due grandi costruzioni mobili dell’essenziale scenografia immaginata da Bruno Antonetti, cioè la facciata di un’architettura in rovina con i segni di un passato nobile e una grande parete sbrecciata, entrambe mosse a vista per costruire i diversi ambienti con il concorso dell’efficace disegno luci di Fabio Barettin. E poi un paesaggio di seggiole da osteria, abitate dal coro e dai cantanti, ma spesso anche vuote, che vogliono raccontare di una comunità dispersa. Non c’è pausa, come conviene ad un atto unico, ma il sipario si chiude per il celebre intermezzo (applauditissimo) prima di riaprirsi per l’ultima scena, quella del duello rusticano con l’esito fatale per il fedifrago Turiddu. Il suo cadavere è sistemato sul tavolo e trasportato a spalla da quattro portatori come un martire per onore (di altri) nell’ennesima processione del paese.
Come per la regia, anche per la musica si è scelto un direttore d’orchestra di lungo corso come Donato Renzetti, che assicura una guida non troppo portata alle smancerie o raffinatezze strumentali ma efficiente ed affidabile. Con lui l’Orchestra del Teatro La Fenice suona e suona fedele a un’idea tradizionale di verismo musicale. Piuttosto disuguali la compagnia di canto, nella quale all’ottima prova di Jean-François Borras, un Turiddu risolto in una linea di canto espressiva e morbida fin dalla serenata fuori scena nel preludio, non corrispondono altrettanto riuscite prestazioni di Silvia Beltrami, una Santuzza piuttosto esasperata nei toni e con più di una forzatura vocale, e di Dalibor Jenis, un Alfio decisamente sopra le righe ma di buona fibra vocale. Più discrete Anna Malavasi, una mamma Lucia insolitamente giovane, e Martina Belli, Lola di bella presenza, così come Valeria Arrivo con il celebre grido dell’ammazzamento di Turiddu ricco di pathos come da tradizione. Di grande rilievo l’apporto del Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani, assolutamente protagonista nell’opera di Mascagni.
Nonostante la precoce ripartenza agostana e la pesante canicola, non manca il pubblico che, piuttosto trattenuto all’inizio, non risparmia generosi applausi a tutti.
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