Il Requiem di Berlioz è una grande festa a Santa Cecilia
La stagione dell’Accademia di Santa Cecilia inaugura con laGrande Messe des morts, con Antonio Pappano sul podio
I centocinquanta anni dalla morte di Berlioz portano fortuna all’Accademia di Santa Cecilia. Dopo il bellissimo concerto di Gardiner dello scorso marzo ecco ora la splendida inaugurazione della nuova stagione con la Grande Messe des morts. Composta nel 1837, è nota come la più grandiosa composizione di Berlioz e forse di tutti i tempi, per quanto riguarda l’organico, mentre la durata è relativamente contenuta: l’unica possibile rivale che si conosca è la Sinfonia n. 8 di Mahler.
Per entrambe si favoleggia di mille esecutori, ma questo è vero solamente nei sogni (o deliri) dei due compositori, in realtà ne bastano molti di meno: Berlioz per la prima esecuzione del suo Requiem nella chiesa parigina degli Invalides ne ebbe a disposizione circa quattrocento. Più di quelli che sono bastati a Roma per riempire di suono l’enorme sala Santa Cecilia. Ricordiamo che sul palco stavano l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (debitamente rinforzata: otto timpanisti, più altri tre percussionisti, tanto per dare l’idea) e i Cori riuniti di Santa Cecilia e del Teatro San Carlo di Napoli, preparati dai rispettivi maestri Pietro Monti, al suo esordio in questo nuovo incarico, e Gea Garatti Ansini. Inoltre, disposti a semicerchio in alto, quattro gruppi di ottoni, formati da elementi dell’orchestra di casa e della Banda della Polizia di Stato.
Sbrigata la questione dell’ipertrofismo dell’organico, bisogna subito dire che Berlioz lo usa in tutta la sua apocalittica potenza soltanto in pochi punti e che privilegia di gran lunga l’orchestrazione leggera, trasparente, talvolta perfino impalpabile, e i cori a cappella o appena sorretti da una delicata armonizzazione. Indubbiamente quando il compositore scatena tutte le forze a sua disposizione, l’effetto è impressionante: ma questo avviene soltanto nel Tuba mirum e in pochi altri momenti. Berlioz stupisce altrettanto e forse anche di più con il Dies irae cantato sotto voce (quando negli altri Requiem, quello di Verdi in primis, si scatena appunto un dies irae) dalle voci femminili del coro a cappella (c’è soltanto un leggerissimo e appena percepibile raddoppio dei legni) con una melodia modale dal sapore remoto e arcano.
È un seguito di scelte sorprendenti, che talvolta possono sembrare escogitate proprio per sorprendere, ma che sono comunque geniali. Tanto più geniali quanto più sono semplici. Due per tutte: nell’Hostias la breve frase dei flauti conclusa da un accordo dei tromboni, che crea come un baratro tra il registro acuto dei primi e quello profondissimo dei secondi; nel Sanctus i piatti che vengono sfregati leggerissimamente, producendo un suono che sembra quasi un gemito lontano, su cui si poggia un soffice e profondo colpo di gran cassa. Anche Berlioz sapeva che queste due idee erano straordinarie, tanto che le ripete entrambe più e più volte, ma non per questo il loro effetto si attenua, anzi si intensifica. Ma non si può pensare di condensare in poche righe un’ora e mezza circa di musica che sciorina in continuazione grandi sorprese e piccoli miracoli come questi. Bisogna ascoltarla.
L’esecuzione è stata ottima. Perfetta l’orchestra, ottimi i cori (e sappiamo che amalgamare in poche prove due compagini corali diverse non è affatto facile), precisi e potenti gli ottoni della banda. Meraviglioso Javier Camarena nel Sanctus, l’unica delle dieci sezioni di questo Requiem che richieda una voce solista: la tenore di linea di canto di questo tenore lirico-leggero messicano è immacolata e la sua voce limpida ma ben timbrata raggiunge ogni angolo dell’enorme auditorium.
Quanto ad Antonio Pappano, che dire? La sua direzione è stata prodigiosa per come ha tenuto perfettamente sotto controllo ogni nota di questa sterminata partitura. Ha scatenato i “tutti” più esplosivi, ma dosandoli benissimo, perché ci vuole poco a cadere nel frastuono incontrollato. Ma ancora più mirabile è stato come abbia valorizzato le pagine meno appariscenti e gli innumerevoli dettagli minimi ma geniali, come i due ricordati poco sopra.
Il successo è stato entusiastico, e non era scontato perché questo Requiem non è un ascolto facile ma richiede grande attenzione e concentrazione perché il suo valore possa essere veramente capito e apprezzato in pieno.
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