Il padiglione d'oro fra Oriente e Occidente
L’Opéra national du Rhin ripropone Il padiglione d’oro di Toshiro Mayuzumi da Mishima per il festival Arsmondo dedicato al Giappone
Nasce con qualche ambizione il nuovo festival Arsmondo nato dalla volontà della neodirettrice dell’Opéra du Rhin, Eva Kleinitz. E nasce nel segno dell’Oriente e di quel Giappone al centro della programmazione, il paese che, nel secondo dopoguerra, è stato culla di una generazione di compositori, il cui lessico musicale nasceva dall’alchimia fra tradizioni locali e modelli più avanzati della cultura occidentale. Di quella generazione probabilmente Toshiro Mayuzumi non è la personalità più ispirata ma sicuramente è un campione molto rappresentativo di quel “meticciato” culturale indotto del tragico esito degli eventi bellici. E probabilmente non è un caso che la sua prima esperienza con il genere opera sia avventuto nel segno di Yukio Mishima, fieramente attaccato ai valori etici tradizionali del paese eppure così vicino a modi espressivi occidentali, e del suo romanzo Kinkakuji (Il padiglione d’oro), il soggetto scelto dell’opera. Il suo protagonista, l’apprendista monaco Mizoguchi, vive in uno stato di dissociazione fra un passato ormai finito e lo squallido presente poco rassicurante. È quel dissidio interiore il motore della pulsione distruttiva che lo spinge a dar fuoco a uno dei simboli della bellezza passata di quel grande impero, il Padiglione d’oro dell’antica capitale Kyoto.
Non è privo di interesse, dunque, la riproposizione a Strasburgo del lavoro di Mayuzumi ma pare piuttosto difficile un recupero definitivo di questo lavoro, che verrà presentato alla Tokyo Nikikai Opera Foundation nella prossima stagione. Piuttosto debole l’impianto drammaturgico, che non va oltre il bozzettismo nell’incalzante successione di eventi che porta alla catastrofe finale, e troppo eclettico per lasciare un segno il linguaggio musicale, che deve molto al neoclassicismo stravinskiano compreso nel tono severo degli interventi corali ma tradisce anche un certo gusto cinematografico nell’ispirazione (Mayuzumi fu anche prolifico compositore di colonne sonore e si sente) e guarda al Giappone musicale soprattutto negli inserti di strumenti tradizionali.
Lo stesso gusto cinematografico traspare nell’allestimento firmato dal regista Amon Miyamoto, molto abile nell’imprimere un buon ritmo alla narrazione e nel dosare i giusti elementi spettacolari. Sapiente è l’uso delle proiezioni ad effetto firmate da Bartek Macias, che sfondano le pareti della scatola scenica con elementi a scomparsa (molto giapponese) disegnata da Boris Kudlicka, e bello il gioco di costumi (di Kaspar Glarner) per dare carattere ad ambienti e situazioni.
Paul Daniel guida la macchina musicale indulgendo sugli esotismi strumentali e i colori della partitura. Di spessore le prove dell’Orchestre philharmonique de Strasbourg, compagine molto rodata nella contemporanea, e del Coro dell’Opéra national du Rhin. Quanto agli interpreti, della prova di Simon Bailey come Mizoguchi si apprezza soprattutto il solido mestiere, mentre Dominic Große conferisce al giovane monaco suicida Tsurukawa accenti più toccanti e Paul Kaufmann di Kashiwagi sottolinea soprattutto il lato burlesco. Poco più che figure di contorno gli altri personaggi, fra i quali spiccano soprattutto Yves Saelens, un sensibile padre di Mizoguchi, e Fumihiko Shimura, il severo monaco Dosen.
Pubblico non foltissimo in sala alla prima (molti gli studenti di rinforzo) ma risposta calorosa.
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