Il Novecento di Valčuha al San Carlo
Napoli: Rachmaninov e Prokof'ev per aprire la stagione sinfonica del San Carlo
Il teatro di San Carlo si gioca il tutto sul triangolo Novecento, Russia, virtuosismo. Inaugura, ovvero riprende la stagione 2017-2018 con il Concerto n. 3 in re minore per pianoforte e orchestra, op. 30 di Sergej Rachmaninov e Aleksandr Nevskij, cantata per mezzosoprano, coro e orchestra, op. 78 di Sergej Prokof’ev.
Juraj Valčuha è alla ricerca di un'essenza per l'orchestra del lirico di Napoli, inizia porgendo il Concerto in re minore con gesto assolutamente sobrio, ma con tutti, tutti gli attacchi, dispensati con esatto controllo, dominando la partitura da veterano, con perizia consumata. Accanto, più avanti, il pianismo di Simon Trpčeski, avvolgente e temerario, che non sembrava indirizzato a suonare verso la platea, ma chiamato a dialogare intensamente con l'orchestra. Ne usciva un Rachmaninov delicato, tetro e malinconico, con lirismi decantati e oasi melodiche lucenti. Il volume raccolto solo nel favoloso tema del primo movimento, battute sempre aspettate con ansia dal pubblico, in particolare quello giovane, di studenti pianisti che affollavano le ultime file di un San Carlo pressoché pieno. Trpčeski affronta leggero il Rach 3, scivolando su di un tappeto di note e fluidità. Dal secondo movimento suona meno teso, proponendo con passo lesto un suono sontuoso, tutto tenuto su tempi inaspettati, in accelerando, a volte tenace nei disegni ossessivi, a volte con richiami a tinte cameristiche. Due bis da Trpčeski, un delicato valzer di Chopin - ché i pianisti se non c'è Chopin non si sentono tali - e ancora Rachmaninov in duo con il primo violoncello, un buon Luca Signorini, tanti vibrati e melodia da suoni lunghi, tutta da cantare.
Aleksandr Nejinskij, nella seconda parte, approda ad una dimensione superiore: avvincente e avventurosa, abbandonata alle potenzialità della parola, al coro e al lirismo del mezzosoprano, Ketevan Kemoklidze. Valčuha mostra confidenza con il duttile impaginato di Prokof’ev, è direttore d'orchestra che impone vibrazioni ed emozioni forti, il suo tratto interiore lo porta a disegnare una mappa entro la quale il suono dell'orchestra affiora, lievita e dirompe in un timbro caldo, pieno, spesso massiccio, ma con quelle pennellate acide, novecentesche, tipicamente sue. Perfette le numerose percussioni, il coro che sembra qui la reincarnazione del principe di Novgorod - lì il popolo russo, i rintocchi dei timpani, la spavalderia degli ottoni. Riempiono la sala anche i momenti semplicemente intimi con il mezzosoprano Kemoklidze, di presenza carismatica, cantati avanti, accanto al pubblico, che Prokof’ev, cesella intrecciati con gli archi, come un malinconica pagina segreta d'amore di Nevskij.
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