Il felice ritorno di Riccardo Cuor di Leone a Versailles
Riuscitissimo recupero dell’opera di André Grétry nella prima produzione propria dell’Opéra Royal di Versailles
Ci sono opere che passano alla storia più per l’aneddotica o magari per qualche citazione in lavori più celebri che per una conoscenza diretta. Il Richard Cœur de Lion di André Grétry ne è uno degli esempi più brillanti.
Chi non ricorda la vecchia Contessa nella Dama di picche di Čajkovskij rievocare nostalgicamente il passato intonando l’aria “Je crains de lui parler la nuit”? Per non dire del forse meno noto Beethoven delle 8 variazioni per pianoforte sull’aria “Une fièvre brûlante” e tacere che il protagonista Florestan nel suo Fidelio porta il nome del carceriere del re Riccardo di Grétry, sicuramente un caso ma, ispirazione a parte, non son certo poche le coincidenze fra i due lavori.
E che dire di “Ô Richard! Ô mon roi! L'univers t'abandonne. Sur la terre il n’est donc que moi qui m’intéresse à ta personne” intonato dalla guardia personale come omaggio a re Luigi XVI e alla consorte Maria Antonietta (grande ammiratrice di Gluck quanto di Grétry) durante il banchetto del 1 ottobre 1789 nella sontuosa sala dell’Opéra della residenza reale? Si racconta che tanta fu l’irritazione nei circoli rivoluzionari di Marat, Danton e Desmoulins, che da più parti si invocò la marcia su Versailles per spegnere il peggior focolaio controrivoluzionario. Come andò a finire è storia nota e, visto il precedente, le note di quell’ispirata aria di Grétry divennero quelle dell’inno dei controrivoluzionari realisti: “Ô Louis! Ô mon roi! Notre amour t'environne. Pour notre cœur c'est une loi d’être fidèle à ta personne”.
Tutto questo la dice molto lunga sulla grande popolarità dell’opera di Grétry, che non si è mai affievolita almeno fino agli albori del Novecento, escludendo qualche bando dalle scene in occasione delle occasionali vampate rivoluzionarie del XIX secolo. Una popolarità conquistata grazie alla freschezza dell’ispirazione musicale oltre all’agilità dell’intreccio, nel quale la leggerezza bucolica domina sul tema storico, un inedito all’epoca, ispirato alla leggenda della prigionia ordinata dall’arciduca Leopoldo d’Austria di re Riccardo I, più noto come Cuor di leone (qui però di Robin Hood non c’è nemmeno l’ombra), di ritorno dalla Terza Crociata e della sua avventurosa liberazione da parte del trovatore Blondel de Nesle. Popolarità di cui si è persa memoria giorni nostri, fatta salva qualche fugace ripresa dell’opera.
Nonostante il Richard Cœur de Lion non sia mai stata rappresentato a Versailles, occasione per un suo recupero sono le celebrazioni per i 250 anni dell’Opéra Royal, che, a dispetto della lunga storia, vanta uno dei repertori fra i più modesti rispetto ad altre sale d’opera del periodo, con la sua ventina scarsa di spettacoli nei 20 anni precedenti la Rivoluzione. Riconquistata soltanto da pochi anni la sua funzione storica di luogo destinato alla musica, questo allestimento segna anche la trasformazione dell’Opéra Royal in realtà produttiva da semplice contenitore di produzioni ospiti.
Per questa significativa svolta, la scelta è caduta sui canadesi Marshall Pynkoski per la regia e Jeannette Lajeunesse Zingg per la coreografia, cofondatori dell’Opera Atelier di Toronto, dal 1985 culla di spettacoli d’opera storicamente informati in terra americana. Il gusto del godibilissimo spettacolo è accuratamente restaurativo nell’impianto scenico con fondali dipinti e quinte mobili curato da Antoine Fontaine (curiosamente nel fondale di apertura si scorgono l’inconfondibile sagoma di Castel Sant’Angelo e la campagna romana con rovine classiche anziché le Alpi austriache come da libretto) e nei curatissimi costumi all’antica ma di foggia settecentesca di Camille Assaf. Il ritmo è incalzante nell’alternanza di numeri musicali e i parlati della tradizione francese dell’opéra comique e l’azione ben integrata con le coreografie d’epoca disegnate per gli esperti danzatori del Ballet de l’Opéra Royal.
Molto incalzante è anche il passo impresso all’esecuzione dall’esperto Hervé Niquet, che, anche in questo raro Grétry, conferma il suo spiccato senso dello spettacolo e il rigoroso gusto per il repertorio francese di tardo Settecento. Davvero impeccabile l’esecuzione degli scattanti strumentisti del Concert Spirituel, capaci di un suono trasparente e agile e della leggerezza che questo genere richiede. Buono nel complesso il giovane cast vocale nonostante qualche debolezza e qualche lieve inciampo, dovuto forse alle non moltissime prove ma anche di più al posizionamento in passerella di spalle al direttore e all’orchestra. Se la cavano comunque tutti piuttosto bene specie nella disinvolta alternanza fra canto e parlato. Molto bene l’imperioso Riccardo di Reinoud Van Mechelen, molto bene anche l’atletico Blondel di Rémy Mathieu, che ha la parte più lunga, un po’ nasaleggiante talora ma mobilissimo e perfettamente in parte. Marie Perbost si divide credibilmente fra l’aristocratica contessa Marguerite consorte di Riccardo e l’Antonio “en travesti”, guida del finto cieco Blondel, mentre Melody Louledjian è una freschissima e languorosa Laurette. Intonati tutti i numerosi ruoli di carattere: Jean-Gabriel Saint-Martin è un trucibaldo Florestan (ma anche i più innocui Urbain e Mathurin), Geoffroy Buffière un borioso Sir Williams, e Charles Barbier un buffo Sénéchal. Aggiunge valore alla resa musicale l’ottima prestazione anche scenica del Coro del Concert Spirituel.
Molti applausi e chiamate per questa riuscita riesumazione. Più che auspicabile la diffusione della registrazione dello spettacolo.
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