Il Farnace riscattato
Dopo 283 anni di attesa, debutta a Ferrara l’opera di Vivaldi interdetta dal legato pontificio, ed ora magistralmente proposta da Federico Maria Sardelli
Fra le opere di Antonio Vivaldi, Il Farnace fu da subito una delle più vitali. Nata a Venezia nel 1727, entrò in un circuito di repliche superiore alla consuetudine, con riprese ravvicinate a Livorno (1729), Praga (1730), Pavia (1731), Mantova (1732), Treviso (1737). Grazie agli auspici del marchese Guido Bentivoglio, nel 1738 il ‘prete rosso’ ne stava preparando una nuova versione per Ferrara, città dello Stato Pontificio, quando giunse il veto del cardinale Tommaso Ruffo, legato papale in città: il modello di vita affaristico del celebre compositore non doveva sembrargli consono all’abito sacerdotale che indossava (da tempo don Antonio si asteneva dal celebrare la S. Messa) e men che meno la continua presenza di giovani cantanti al suo seguito, in primis quell’Anna Girò cui si vociferava che si accompagnasse troppo disinvoltamente. L’onere di scene, costumi e contratti già firmati pare cadde tutto sulle spalle di Vivaldi, tanto da indurre i suoi biografi a identificare in quell’evento l’inizio del tracollo finanziario e psicologico che lo condurrà alla tomba in totale indigenza, appena tre anni dopo.
L’attuale allestimento del Farnace a Ferrara è stato dunque salutato come un risarcimento morale da parte della città, al punto che l’arcivescovo in carica, Mons. Gian Carlo Perego, si è sentito in dovere di scendere in campo per un gesto di riconciliazione, assurto rapidamente alle cronache nazionali: «In realtà – sostiene il prelato – si trattava di calunnie, come spiega don Vivaldi in una lettera all’amico marchese Guido Bentivoglio, in cui risponde alle tre accuse: l’astensione dalla celebrazione dalla Messa dipendeva da un’asma bronchiale forte, che aveva portato alla dispensa; la cantante Anna Giraud era donna di specchiata virtù e fede, come le altre cantanti del coro dell’Ospedale di Pietà e dell’Orfanatrofio femminile che da anni don Vivaldi dirigeva a Venezia con passione; l’allestimento dell’opera era affidato a un’impresa autonoma. Anche il parroco veneziano di don Vivaldi confermò in una lettera al card. Ruffo la moralità di don Vivaldi. Purtroppo, la salute cagionevole del card. Ruffo e la sua rinuncia all’Arcidiocesi di Ferrara, con la partenza per Roma il 26 aprile del 1738, impediranno di fare chiarezza sulla vicenda. [...] Ma rimane vera l’affermazione, più volte ripetuta da Papa Francesco, e che si rifà a un detto del Siracide: ‘Ne uccide di più la lingua della spada’. La prossima tappa e il nuovo impegno, che spero possa essere raccolto dal Teatro Comunale di Ferrara e dal Maestro Federico Maria Sardelli, è la rappresentazione di un’altra opera di don Vivaldi, con testo di Pietro Metastasio, che il grande musicista, come testimonia una lettera del 1737 al marchese Guido Bentivoglio, avrebbe voluto portare in scena nel Teatro di Ferrara: Catone in Utica. Sarebbe realizzare un altro grande desiderio del ‘prete rosso’, del grande musicista veneziano. Un nuovo atto di giustizia e di amore all’arte e alla musica».
Da parte della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, un tale evento carico di storia avrebbe meritato una maggiore valorizzazione documentaria, a futura memoria: nulla di speciale, ma semplicemente un normale programma di sala che ripercorresse nei dettagli la vicenda di quell’incidente di politica religiosa, fugando dubbi inesattezze attraverso le ultime acquisizioni archivistiche, nonché una nota filologica capace di dar conto delle differenze testuali fra la partitura ferrarese del Farnace e le versioni precedenti, a cominciare dalle caratteristiche veramente peculiari del manoscritto autografo, ultimo fra quelli operistici di Vivaldi pervenutoci e insolitamente ricco di indicazioni esecutive preziosissime per ricostruire la prassi interpretativa dell’epoca. Lo spettatore curioso si è invece dovuto accontentare di una laconica paginetta stampata su foglio volante, in cui a malapena si avverte che vengono eseguiti solo due atti (nell’edizione di Bernardo Ticci), perché il terzo è perduto. Contiamo in un recupero documentario in occasione delle repliche piacentine, il prossimo aprile.
L’allestimento essenziale di Marco Bellussi – schematico negli eleganti elementi scenici di Matteo Paoletti Franzato e atemporale negli affascinanti costumi di Carlos Tieppo – si è fatto particolarmente apprezzare per la sua sobrietà visiva, non priva di efficaci suggestioni prodotte dalle luci di Marco Cazzola e le proiezioni di Creativite. Gesti e posture dei singoli interpreti hanno creato spazi e tempi scenici, mai in contrasto con la narrazione verbale e musicale: ed oggi è già questo un gran successo!
Nutrito il cast vocale, che merita di essere ricordato al completo: Raffaele Pe (Farnace), Francesca Lombardi Mazzulli (Gilade), Chiara Brunello (Tamiri), Elena Biscuola (Berenice), Leonardo Cortellazzi (Pompeo), Silvia Alice Gianolla (Selinda), Mauro Borgioni (Aquilio). Una particolare menzione per la suadente voce mezzosopranile di Chiara Brunello e per l’imperiosa voce baritonale di Mauro Borgioni, che unitamente alla disinvolta presenza scenica fa di entrambi due dei più interessanti artisti italiani nell’attuale panorama della musica barocca.
La palma dell’esecuzione va comunque attribuita all’Orchestra Accademia dello Spirito Santo per un’intonazione e una pulizia che raramente si sentono fra gli ensemble di strumenti antichi (neppure un’incertezza dai corni in tutta la serata!). Federico Maria Sardelli, al suo debutto ferrarese, l’ha diretta con eleganza e pacatezza insieme, senza gli isterismi che vanno oggi tanto di moda in questo repertorio, riuscendo a mantenere la limpidezza di tessitura nell’intreccio delle singole parti strumentali e un contatto sempre stretto con il palcoscenico (dirigeva anche i recitativi secchi!). Se il progetto vivaldiano avrà davvero un seguito a Ferrara con questi artisti, l’esito sarà assicurato.
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