Il debutto romano di Jaap van Zweden

Eccellenti le sue interpretazioni di Šostakovič e Beethoven a Santa Cecilia

Jaap van Zweden
Jaap van Zweden
Recensione
classica
Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Jaap van Zweden
26 Maggio 2022 - 28 Maggio 2022

L’olandese Jaap van Zweden è il direttore musicale della Filarmonica di New York e questo – oltre a tutta la sua restante attività passata e presente – basterebbe a farne uno dei direttori più in vista di oggi, eppure finora era praticamente sconosciuto in Italia. Finalmente, all’età di sessantuno anni, dopo un rinvio dovuto ai lockdown degli scorsi anni, ha debuttato all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con un programma imperniato su due celebri Quinte Sinfonie, quella di Beethoven e quella di Šostakovič.

Invertendo l’ordine cronologico, van Zweden ha cominciato col russo, che, dopo la feroce stroncatura - ispirata dai vertici del regime sovietico, forse da Stalin stesso - della sua Lady Macbeth del distretto di Mcensk,  presentò prudentemente la Sinfonia n. 5  come la “risposta di un artista sovietico ad una giusta critica”. In realtà è una “risposta” ambigua, sibillina, che non lascia affatto capire se l’accettazione da parte del compositore della retorica gradita al regime fosse sincera o – com’è più probabile – ironica. Van Zweden la ha diretta con totale acribia – credo che su questo abbia inciso il fatto che musicalmente è nato come violinista e konzertmeister di gruppi di musica barocca – e ne ha dato una lettura di grande esattezza e rigore. Dal severo canone iniziale fino alla roboante marcia finale la sua lettura obiettiva e distaccata ha squadernato questa lunga e complessa partitura senza lasciarsi sfuggire un dettaglio e anche senza sottolinearne troppo uno a scapito di un altro: è emersa così una segreta prossimità di Šostakovič al neoclassicismo musicale degli anni trenta del secolo scorso, ma senza il tono giocoso connaturato al neoclassicismo stravinskiano.

Un’esecuzione splendida sia per il vigore ritmico, la nettezza dei contorni e il risalto dato ai singoli timbri (anche a questi aspetti non devono essere estranee le origini di barocchista di van Zweden) sia per il rifiuto di facili effetti e di eccessivi clangori. Alla fine il direttore e l’orchestra (in forma smagliante) sono stati premiati da una tempesta di meritatissimi applausi.

Dopo l’intervallo, van Zweden era atteso ad un altro e ancor più temibile banco di prova. Già il celeberrimo attacco della Sinfonia n. 5  di Beethoven lasciava chiaramente intendere quale fosse il suo approccio interpretativo: vigoroso, energico, ma totalmente esente da ogni effettismo e da ogni retorica. Senza sacrificare la plasticità del fraseggio e senza ricorrere al facile effetto di squassanti ‘fortissimo’ (anzi, le dimensioni dell’orchestra erano volutamente ridotte rispetto al consueto) il direttore raggiungeva una tensione senza respiro, che cresceva inesorabilmente dalla prima all’ultima battuta, sempre sorretta da un ritmo incalzante. Il secondo movimento, spesso accusato di un marcato calo emotivo, era nella sua interpretazione una pausa non solo di grande bellezza ma anche di sottile emozione, particolarmente nel breve e poetico passaggio in tonalità minore. Poi nel terzo movimento la tensione riprendeva a crescere, crescere, crescere. Magnifica la transizione al quarto movimento, che il direttore (vorrei sottolineare anche il contributo veramente fondamentale del timpanista Antonio Catone) graduava al millimetro nel ritmo e nella dinamica, caricandola di tensione, di mistero e di sospensione, fino all’esplosione trionfale del fortissimo in do maggiore, che prendeva nell’interpretazione di van Zweden toni un po’ troppo marziali e trionfalistici, che ci sono ma forse non dovrebbero essere così sonoramente sottolineati. Unico appunto che si può fare ad una interpretazione maiuscola.

Alla fine il pubblico non voleva smettere di applaudire, finché van Zweden -  dopo aver fatto ripetutamente alzare le prime parti e le intere sezioni dell’orchestra per dividere con loro il successo - ha preso il primo violino e lo ha portato via con sé. Indubbiamente tra il direttore olandese e il pubblico romano è scoppiato un grande amore a prima vista, anzi al primo ascolto.      

 

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