Enescu da camera
Il Festival a Bucarest
Nell'ultimo weekend del festival abbiamo ascoltato due concerti notturni di Jordi Savall con i due diversi gruppi di cui è l'animatore, Les Arts Florissants e Hespèrion XXI. Il primo era dedicato alla musica del Concert Spirituel al tempo di Luigi XV, con musiche di Corelli, Telemann e Rameau. L'esecuzione del concerto grosso op. 6 n. 4 dell'italiano era viva e animata, con l'alternanza tra concertino e tutti valorizzata dalla disposizione stereofonica degli strumenti e con le parti solistiche arricchite da abbellimenti splendidi e perfettamente in stile con la compostezza di Corelli. Impeccabile anche l'esecuzione di un concerto e di due ouverture-suite di Telemann, nel cui sterminato catalogo Savall è andato a pescare delle musiche che prevedono una viola da gamba solista, suonandole da par suo, con suono e musicalità perfetti, che il trascorrere degli anni non intacca ma anzi rende ancor più preziosi. Però queste composizioni di Telemann, scorrevoli ma insapori, non avevano particolari qualità. Che differenza con la suite da Les Indes Galantes di Rameau, che sprizzava idee ritmiche, timbriche e armoniche ad ogni battuta!
La sera dopo Les Arts Florissants hanno lasciato il posto a Hespèrion XXI, che è nato come gruppo specializzato nella musica medioevale e rinascimentale ma oggi è un'orchestra multietnica votata soprattutto alla musica di tradizione orale, sia europea che del vicino oriente, seguendo in questo l'evoluzione degli interessi musicali di Savall stesso. In questo caso il concerto, intitolato "Balcani, miele e sangue", era dedicato alle musiche tradizionali dei Balcani (e oltre: c'erano anche musiche armene, turche e greco-cipriote) e si articolava secondo il succedersi delle stagioni dell'anno e dei momenti cruciali della vita umana, accostando musiche di popoli che sono stati a lungo fieramente nemici e tra cui ancora permangono vecchi rancori: l'idea, non nuova, era che la musica unisce ciò che i confini dividono. Il pubblico ha accolto entrambi i concerti con un entusiasmo incredibile, a conferma del carisma universale di Savall.
I concerti del pomeriggio alle 16.30 sono dedicati ai grandi solisti, che nel weekend da noi trascorso a Budapest erano due violinisti, Patricia Kopatchinskaja e Maxim Vengerov. Quello della Kopatchinskaja era in realtà un concerto sinfonico, perché accanto a lei stava la Mahler Chamber Orchestra, che, nonostante il nome è un'orchestra sinfonica, di dimensioni tali da poter eseguire Nobilissima Visione di Hindemith, un compositore che dovrebbe essere programmato più spesso, ma che non è rappresentato al meglio da questo lavoro appartenente a quello che si potrebbe definire il suo periodo "indietro tutta", con il ritorno a forme tradizionali e ad un linguaggio assolutamente diatonico. Ma questo concerto meritava di essere ascoltato soprattutto per i due lavori di Ligeti. Uno era il giovanile e ben noto Concert Romanesc, molto bartokiano, interamente basato sul folclore romeno, con motivi in parte autentici e in parte inventati sulla falsariga della musica tradizionale: un pezzo che dimostra i suoi quasi settant'anni e tuttavia li porta benissimo. Poi Ligeti avrebbe preso una strada molto diversa, come dimostra il Concerto per violino del 1992, che è una sintesi tra esperienze d'avanguardia, come microtonalità ed estreme complessità ritmiche, e forme antiche, come lo hoquetus e la passacaglia. È un pezzo complesso ma affascinante, "una specie di cornucopia di effetti e di tecniche, un selvaggio collage di atmosfere e colori". La Kopatchinskaja ha una tecnica eccellente e una ricchissima tavolozza di colori ma soprattutto ha la straordinaria capacità di tuffarsi nella più complessa musica contemporanea con lo stesso trasporto che altri metterebbero in un brano romantico, trascinando così il pubblico a superare quasi senza accorgersene la barriera che solitamente lo separa dalla musica dei nostri giorni. Moltissimi applausi e richieste di bis, soddisfatte con due brani di Milhaud e Bartok, che simpaticamente coinvolgevano anche alcuni elementi dell'orchestra. La MCO è stata come sempre eccellente, sotto la bacchetta precisa ma non entusiasmante del giovane Jonathan Stockhammer. Maxim Vengerov ha avuto una carriera piuttosto accidentata. Si è affermato giovanissimo come il miglior violinista russo e probabilmente il migliore violinista della sua generazione a livello mondiale, poi un misterioso problema al braccio lo ha costretto a mettere da parte il violino e a dedicarsi alla direzione d'orchestra. Da alcuni anni ha potuto gradualmente ritornare al violino e oggi, a quarantatre anni, è tornato ad essere il violinista straordinario che era, ma più maturo, meno pirotecnicamente virtuosistico e più profondamente interprete. Il suo recital è stato una meraviglia. A dire il vero l'inizio poteva far temere che i suoi problemi non fossero interamente risolti, perché il suono era piuttosto esile e veniva spesso soverchiato dal pianoforte. Ma probabilmente questo dipendeva solo dalla scelta di iniziare a freddo con un pezzo impegnativo come il giovanile Scherzo di Brahms per la Sonata "F.A.E." Poi il resto del concerto ha fugato ogni dubbio. La Sonata n. 3 di Brahms e la Sonata di Franck erano splendide, con un suono puro, morbido, percorso dai sottili riverberi richiesti da queste musiche ombrose, crepuscolari, che parlano sottovoce. Perfettamente padrone del suo magnifico Stradivari, attento ad ogni minima sfumatura, sensibile, elegante, Vengerov è stato impareggiabile. Il pianista Vag Papian - che aveva suscitato perplessità per come l'aveva soverchiato nel primo brano - si è poi rivelato un collaboratore eccellente, non un semplice accompagnatore, ma un vero partner, capace di rispondere da pari a pari a Vengerov, accogliendone le sollecitazioni e fornendogli a sua volta spunti e stimoli. Al centro del loro concerto era la Sonata op. 6 di Enescu: è giusto finire questo resoconto del festival di Bucarest con un lavoro del suo eroe eponimo, cui viene dato grande spazio nella programmazione, com'è giusto, non solo perché è il più grande musicista romeno ma perché è un compositore di primo piano ingiustamente trascurato fuori dalla Romania. Questa sonata è un lavoro giovanile del 1899, quando Enescu - dopo un periodo di studi a Vienna, dove aveva conosciuto Brahms - aveva appena completato la sua formazione di compositore con Massenet e Fauré al conservatorio di Parigi. Siamo qui molto lontani dal carattere popolare romeno delle sue composizioni più note. Si avverte invece l'influsso dei maestri francesi - in particolare di Fauré - nelle melodie che si sviluppano liberamente con frasi sinuose e brevi ma d'intensa espressività, nella fluidità ritmica, nella ambiguità armonica, nella libertà formale che non pregiudica la profonda unitarietà del brano, nella totale assenza di retorica e di esibizione virtuosistica. Un pezzo magistrale, che si stenta a credere composto da un diciottenne.
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