Dopo la rivoluzione
A Pompei il film Oh To Believe in Another World realizzato da William Kentridge per la Sinfonia n. 10 di Šostakovič con la Luzerner Sinfonieorchester diretta da Michael Sanderling
Ha delle solide radici napoletane il nuovo progetto Oh To Believe in Another World realizzato da William Kentridge per la Luzerner Sinfonieorchester, presentato con successo al Teatro Grande di Pompei nell’ambito di Pompeii Theatrum Mundi, rassegna estiva del Teatro di Napoli, a un paio di settimane di distanza dal debutto al KKL di Lucerna. L’idea di creare un film a partire dalla Sinfonia n. 10 di Dmitrij Šostakovič è nata infatti qualche anno fa da un incontro del manager dell’orchestra svizzera, Numa Bischof Ullmann, con i lavori dell’artista sudafricano nati nell’ambito della collaborazione con la gallerista Lia Rumma per il napoletano Palazzo Donn’Anna.
Composta da Dmitrij Šostakovič nel 1953 a pochi mesi dalla scomparsa di Stalin, la Sinfonia n. 10 in mi minore op. 93 è stata spesso oggetto di interpretazioni soprattutto nella chiave del sofferto rapporto del compositore con il regime di terrore instaurato nell’URSS stalinista. Particolarmente controversa è stata la tesi del musicologo Solomon Volkov, secondo cui questa sinfonia, arrivata otto anni dopo la precedente e soprattutto dopo le brucianti e ripetute accuse di formalismo al compositore scatenate proprio da sue creazioni nel genere sinfonico, sarebbe una rappresentazione in musica di Stalin, del quale l’Allegro del secondo movimento rappresenterebbe un ritratto feroce, e del periodo staliniano. Che Stalin c’entri o no, una dimensione biografica certamente esiste come testimonia la “firma” del compositore apposta nell’Allegretto del terzo movimento nel gruppo ripetuto di quattro note re-mi bemolle-do-si (D-eS-C-H nella notazione anglosassone).
Preso atto dell’impossibilità di illustrare una sinfonia non necessariamente a programma come questa, a partire da spunti storico-biografici William Kentridge costruisce un suo personale racconto per immagini in quattro momenti, come quattro sono i movimenti della sinfonia di Šostakovič, intrecciando la parabola umana del compositore con quella della rivoluzione sovietica, a partire dai fermenti libertari della prima fase fino all’involuzione tirannica e sanguinaria che ne seguì e di cui lo stesso compositore fu vittima. Non nuovo alle incursioni nella Russia rivoluzionaria (come nel sorprendente allestimento del Naso o nell’installazione “trotskijana” O Sentimental Machine), Kentridge immagina un ambiente museale, che raccoglie le vestigia della rivoluzione nei suoi diversi ambienti, fra i quali c’è un teatro, una piscina pubblica e un corridoio con le vetrine che contengono ritratti di personalità della Rivoluzione. Girato con una microcamera che si avventura nei meandri di questo immaginario museo in scala ridotta e fatto di cartone, come nella pellicola graffiata di un film muto scandiscono le immagini frequenti didascalie, che pescano soprattutto dal repertorio dei vitalistici versi futuristico-rivoluzionari in forma di proclami di Vladimir Majakovskij (cui si deve anche il titolo del film Oh To Believe in Another World), che compare anche con la sua amante Lilja Brik protagonista di un grottesco balletto nel più puro stile Kentridge con la triade rivoluzionaria di Lenin, Trotskij e Stalin. Nel dialettico alternarsi di temi fortemente contrastati del Moderato del lungo privo movimento, Kentridge apre con domande esistenziali: “Come spiegare chi sono stato?” o “Chi sono?” per poi disseminare il percorso di entusiastici proclami, alcuni di sapore surreale: “Non abbiamo nazionalità. Il lavoro è la nostra nazione” con le “scarpe fatte di cielo” di un’umanità descritta come “prodotto semilavorato” da condurre “alla felicità con pugno di ferro”. Il trascinante Allegro del secondo movimento accompagna le immagini delle masse che partecipano a quel vitalistico slancio rivoluzionario, come anche Šostakovič mostrato al pianoforte in immagini documentarie (“martellare sulle tastiere del marciapiede”) oltre che, anche lui ridotto a marionetta da pantomima sul podio con una bandierina rossa come bacchetta direttoriale. La dimensione biografica è al centro del danzante Allegretto del terzo movimento, dove entra in scena Elmira Nazirova, pianista e compositrice e probabilmente amante del compositore, come forse suggerisce l’intreccio del loro nomi nello sviluppo musicale. Ma è anche il movimento che segna la fine delle illusioni rivoluzionarie: Majakovskij si spara e Stalin cancella Trotskij ma anche i molti volti dei nemici della rivoluzione. “La locomotiva è pronta per il viaggio nel futuro” ma è finito lo slancio e quelle sono frasi della propaganda stalinista. Una fissità spettrale è quella dell’Andante del quarto movimento. Le speranze rivoluzionarie sono annegate nel terrore di volti anonimi cancellati, di esistenze annullate con un tratto di penna. E infine l’Allegro conclusivo, niente affatto celebrativo, che accompagna le immagini di repertorio di cannoni che sparano. L’utopia sepolta sotto le bombe. “A questo è ridotta oggi l’Europa”: inevitabilmente vibrano le corde del presente. È il destino di ogni rivoluzione?
Sistemata davanti al grande schermo montato sulla scena dell’antico teatro, la Luzerner Sinfonieorchester in formazione da grandi occasioni assicura la colonna sonora alle fantasiose immagini di Kentridge sotto l’affidabile guida di Michael Sanderling. Nonostante l’acustica dallo spazio all’aperto inevitabilmente penalizzi la ricchezza del suono orchestrale, la compagine svizzera fa grande sfoggio di preziosismi strumentali nei frequenti assoli dei movimenti più meditativi, ma anche di esemplare compattezza in quelli più mossi, come nel rabbioso Allegro del secondo movimento.
Il folto pubblico assiepato sui gradoni del Teatro Grande alla prima delle due recite in cartellone segue con grande concentrazione lo spettacolo e risponde con generosi applausi all’indirizzo dell’orchestra, del direttore Sanderling e soprattutto di William Kentridge presente alla festosa serata di musica e immagini.
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