Direzioni del sax di oggi
A Musicafoscari il solo di Colin Stetson, a Padova Jazz il progetto Unruly di James Brandon Lewis
Tra i tanti gruppi Facebook a tema jazzistico, uno dei più divertenti e imperdibili è certamente “Per una legge che punisca la "j" di "jazz" a forma di sassofono”, che raccoglie sdegnosamente tutte le locandine e i loghi in cui, appunto, si abusa graficamente del più iconico degli strumenti di questa musica.
Al di là delle risate (a volte un po’ a denti stretti) che il gruppo in questione ci fa fare – cercatelo! – non c’è dubbio che il sassofono rimanga un punto fermo della ricerca musicale di ambito jazz e dintorni, come dimostrano i due concerti che, a 24 ore e 44 chilometri di distanza l’uno dall’altro, hanno inaugurato i cartelloni di Musicafoscari a Venezia e del Padova Jazz Festival.
Nel primo dei due, all’Auditorium Santa Margherita, è stato protagonista Colin Stetson in solo, nel secondo al PortoAstra il quintetto Unruly di James Brandon Lewis. Due sassofonisti di cui si è molto parlato in questi anni, artisti dal percorso espressivo molto diverso, ma che rappresentano comunque due approcci in cui allo strumento viene rinnovata quella sua centralità di segno e di pratica.
Colin Stetson e il sax di oggi
Molto si è detto sul linguaggio di Stetson, musicista che – senza alcuna sovraincisione – esplora i confini delle potenzialità fonico-ritmiche dello strumento: con l’utilizzo della respirazione circolare e di una meticolosa microfonatura di ogni dettaglio, dal respiro al battito metallico delle chiavi, Stetson da anni costruisce potenti campiture di suono stratificato, nelle quali sovrappone un battito ritmico/materico, lo sfrigolare delle note e un canto ancestrale e lontano, un grido che quasi cerca di emergere da sotto quel cumulo di macerie sonore.
Una formula che lo ha reso molto popolare anche (e soprattutto) presso ascoltatori più vicini all’indie rock che non presso i più paludati circoli jazz e che ha riproposto anche a Venezia, con il consueto muscolare virtuosismo e un piacere ulteriore nel vedere che l’acustica della sala rispondeva in modo efficace alle potenti onde di suono. In lunghi pezzi al sax basso, al sax contralto, ma anche al clarinetto contrabbasso, il suono di Stetson si è fatto ancora una volta drone, didgeridoo, scacciapensieri, drum machine, generatore di strati ghiaiosi e potentissimi.
Per chi lo ammira dal vivo per la prima volta l’effetto è piuttosto impressionante: l’affaticante virtuosismo (tanto vituperato quando si parla di strumenti o tecniche tradizionali, qui invece pienamente funzionale allo show), la fisicità del suono, specie nei bassi, la primigenia pneumaticità del tutto, concorrono a generare una emozionata partecipazione. Chi invece ne conosce già i “segreti” non può non scorgere i limiti oggettivi della proposta, così radicale e definita che non lascia troppi margini di evoluzione: i primi tre pezzi sono incisivi, mentre i restanti due lasciano trasparire un po’ di staticità. Gli applausi sono moltissimi e convinti.
Molto diverso il mondo che James Brandon Lewis ha costruito per il progetto Unruly Manifesto, uscito su disco a inizio anno. Ampliando il proprio abituale trio con basso e batteria a un quintetto con la chitarra elettrica e la tromba, il sassofonista allestisce una sorta di rituale in cui l’afflato melodico di matrice Haden/Coleman si stende su una incandescente carbonella free-noise.
Il linguaggio di sintesi di James Brandon Lewis
Grazie al contributo di Ava Mendoza alla chitarra – splendida – e di Jaimie Branch alla tromba (forse qui più in ombra rispetto alle proprie potenzialità), la musica del quintetto parte da semplici riff per surriscaldarsi rapidamente e slabbrarsi in una sorta di caos blues controllato e saturo di funkyness. Se apparentemente in questo ipervitalismo sonoro il sassofono potrebbe trovarsi in una posizione di minore preponderanza, in realtà – nonostante i non facili equilibri di volumi in sala – è proprio il gesto strumentale di James Brandon Lewis quello che governa tutta la materia, non solo prendendosi momenti solisti vibranti, ma anche “riportando tutto a casa” verso una tradizione black in cui l’aspetto responsoriale e politico del processo musicale rimane centrale.
Anche per questo concerto, che sanciva la prima felice collaborazione tra il Padova Jazz Festival e un altro grande “polo” di programmazione musicale di qualità della città, il Centro d’Arte, il riscontro di pubblico è stato numeroso e entusiasta, segnale positivo per il proseguimento del Festival, così come per quello dell’Università veneziana, che vedrà anche tra i protagonisti un altro maestro delle ance solitarie come Ned Rothenberg.
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