Dal Festival della Valle d’Itria 1
Una kasbah in stile rococò
Recensione
classica
Alle 9 di mattina è già da temerari incamminarsi per il centro storico di Martina Franca. Le pareti bianchissime delle case che in questi giorni vengono ripassate a calce e le chianche lucide del pavimento proiettano una luce fortissima, tanto pura quanto insostenibile. A quest’ora ci sono già 30°C e non resta che rifugiarsi nei chiostri o nelle case in pietra. Meta agognata, il convento domenicano fondato nel Quattrocento, sede della Fondazione Paolo Grassi, cuore pulsante, per 365 giorni all’anno, del festival della Valle d’Itria. Un posto dove la formazione (del pubblico e dei musicisti di talento) va di pari passo con la produzione.
Il festival si è inaugurato mercoledì con il debutto (dopo una sorta di generale presentata a Budapest a ottobre scorso) dell’opera di Marco Tutino, Le Braci, ispirata all’omonimo romanzo di culto di Sándor Márai. E ieri sera, nel piccolo e suggestivo chiostro del convento domenicano, i giovani dell’Accademia del Belcanto di Martina, ennesima creatura del direttore artistico Alberto Triola, hanno presentato il workshop di quest’anno, L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, prima opera con strumenti d’epoca del Valle d’Itria (direttore Antonio Greco), in una versione drammaturgica curata da Gianmaria Aliverta. E qui era evidente che la città, raffinata perla del rococò in una regione che attira ogni anno milioni di turisti da tutto il mondo, non era solo un contenitore culturale. Tra le molte fantasie del regista (non tutte immediatamente comprensibili) che ha immaginato l’ultimo capolavoro di Monteverdi come una sorta di melting-pot visivo in cui un Mercurio alato in stile Californian dream convive con un Seneca vestito di tessuti etnici e oro, Poppea è una dolce e casta fanciulla in abiti lunghi bianchi e a fiori, mentre Nerone e i suoi soldati sembrano usciti da una Urban factory, spiccava l’idea di trasformare la reggia di Nerone nella facciata bianchissima di una casa del centro storico, con un’architettura fatta di cassette in legno per la frutta tinte di bianco, decorata da piantine di petunie fucsia e rosse, come quelle che abbelliscono i dehors dei palazzi di questa kasbah pugliese. Il pubblico era riunito tutt’intorno, un centinaio di spettatori al massimo (biglietti esauriti da alcuni giorni, ma ci sono altre repliche, anche a Monopoli e a Cisternino) che parlavano almeno cinque lingue.
Tra di loro anche gli abitanti di Martina, il che non è scontato. Dopo 41 anni, finalmente i martinesi hanno compreso che il festival è la loro grande opportunità, e cominciano ad amarlo sul serio. Non solo. Lo sostengono, e con esso la musica classica, in particolare le opere, che stanno imparando a conoscere. La formazione del pubblico (dall’infanzia alla terza età) è uno degli impegni costanti della Fondazione Grassi, con incontri, concerti, presentazioni che scandiscono tutto l’anno. Se dopo una conferenza li ritrovi a teatro, è come si avessero detto “grazie”.
Il festival si è inaugurato mercoledì con il debutto (dopo una sorta di generale presentata a Budapest a ottobre scorso) dell’opera di Marco Tutino, Le Braci, ispirata all’omonimo romanzo di culto di Sándor Márai. E ieri sera, nel piccolo e suggestivo chiostro del convento domenicano, i giovani dell’Accademia del Belcanto di Martina, ennesima creatura del direttore artistico Alberto Triola, hanno presentato il workshop di quest’anno, L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, prima opera con strumenti d’epoca del Valle d’Itria (direttore Antonio Greco), in una versione drammaturgica curata da Gianmaria Aliverta. E qui era evidente che la città, raffinata perla del rococò in una regione che attira ogni anno milioni di turisti da tutto il mondo, non era solo un contenitore culturale. Tra le molte fantasie del regista (non tutte immediatamente comprensibili) che ha immaginato l’ultimo capolavoro di Monteverdi come una sorta di melting-pot visivo in cui un Mercurio alato in stile Californian dream convive con un Seneca vestito di tessuti etnici e oro, Poppea è una dolce e casta fanciulla in abiti lunghi bianchi e a fiori, mentre Nerone e i suoi soldati sembrano usciti da una Urban factory, spiccava l’idea di trasformare la reggia di Nerone nella facciata bianchissima di una casa del centro storico, con un’architettura fatta di cassette in legno per la frutta tinte di bianco, decorata da piantine di petunie fucsia e rosse, come quelle che abbelliscono i dehors dei palazzi di questa kasbah pugliese. Il pubblico era riunito tutt’intorno, un centinaio di spettatori al massimo (biglietti esauriti da alcuni giorni, ma ci sono altre repliche, anche a Monopoli e a Cisternino) che parlavano almeno cinque lingue.
Tra di loro anche gli abitanti di Martina, il che non è scontato. Dopo 41 anni, finalmente i martinesi hanno compreso che il festival è la loro grande opportunità, e cominciano ad amarlo sul serio. Non solo. Lo sostengono, e con esso la musica classica, in particolare le opere, che stanno imparando a conoscere. La formazione del pubblico (dall’infanzia alla terza età) è uno degli impegni costanti della Fondazione Grassi, con incontri, concerti, presentazioni che scandiscono tutto l’anno. Se dopo una conferenza li ritrovi a teatro, è come si avessero detto “grazie”.
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