C'è il pubblico!
Lasciate che lo spettatore, dal vivo, sia vivo!
Recensione
classica
C'è un elemento nuovo e rivoluzionario nel mondo della classica: il pubblico. A Miami Beach, l'architetto Gehry ha costruito per Michael Thilson Thomas e la New World Symphony un auditorium dove il pubblico entra passando attraverso i camerini e il backstage per andare a sedersi tutto intorno all'orchestra. Il concerto si vede e si ascolta perfino da uno schermo gigante affacciato sulla Lincoln Road, il passeggio che porta al mare.
"Tully Scope", la nuova rassegna del Lincoln Center che si è conclusa pochi giorni fa, era rivolta ai New Yorkers. “Il festival è dedicato a voi”, ha scritto il direttore artistico Jane Moss, “il nostro pubblico e la nostra comunità, l'amata tribù a cui noi tutti apparteniamo”. Ma non si tratta di marketing, o di populismo. Del programma, decisamente impegnativo, io ho ascoltato due concerti per sole percussioni di Grisey e Xenakis, un nuovo lavoro rock-contemporaneo di Tyondai Braxton e “Songs of War I have seen“ di Heiner Goebbels. C'erano anche Emanuel Ax, Louis Lortie, Les Arts Florissants e Jordi Savall.
Leon Botstein, il direttore dell'American Symphony Orchestra, nel 1999 ha pubblicato sulla rivista della Oxford University Press un articolo dal titolo "The Audience". Lo scritto si apre con una citazione sconcertante da Ezra Pound, che traduco e riporto parzialmente: «Nessun esecutore può affidarsi all'emozione del pubblico. La musica nella sala da concerto deve contare solo su se stessa e sulla perfezione della sua esecuzione; come fosse sotto una campana di vetro. I membri del pubblico sono spettatori, che guardano qualcosa di cui non fanno in nessun modo parte, e quella cosa dev'essere in sé conclusa. Ne parlo in modo piuttosto pesante, ma non è una sciocchezza, e centinaia di carriere musicali sono state confuse proprio perché l'esecutore non ha capito quanto la musica dovesse condurre una vita interamente autonoma; quanto essa debba avere una propria esistenza, separata dal pubblico; quanto profondamente inutile sia mescolare il pubblico con la performance». Era il 1918, e Glenn Gould di là da venire. Ma oggi, la tradizione della sala da concerto ci ha portato ad ascoltare musica in spazi assolutamente isolati dal mondo esterno. Creiamo l'illusione e quasi una precondizione di silenzio assoluto. Tossire, agitarsi, scartare una caramella, o fare qualsiasi altro rumore è un sacrilegio, segno di ignoranza; interventi di un pubblico la cui presenza, ad eccezione dell'applauso finale, deve restare del tutto inudibile. «Beethoven avrebbe trovato questa concezione semplicemente assurda - commenta Botstein nell'articolo -. E dopotutto, a differenza del 1918, noi oggi possiamo ascoltare e vedere brillanti esecuzioni, assolutamente perfette, in totale isolamento sonoro, in cuffia, a casa nostra... Chi ha ancora bisogno di concerti dal vivo, o di un pubblico?».
"Tully Scope", la nuova rassegna del Lincoln Center che si è conclusa pochi giorni fa, era rivolta ai New Yorkers. “Il festival è dedicato a voi”, ha scritto il direttore artistico Jane Moss, “il nostro pubblico e la nostra comunità, l'amata tribù a cui noi tutti apparteniamo”. Ma non si tratta di marketing, o di populismo. Del programma, decisamente impegnativo, io ho ascoltato due concerti per sole percussioni di Grisey e Xenakis, un nuovo lavoro rock-contemporaneo di Tyondai Braxton e “Songs of War I have seen“ di Heiner Goebbels. C'erano anche Emanuel Ax, Louis Lortie, Les Arts Florissants e Jordi Savall.
Leon Botstein, il direttore dell'American Symphony Orchestra, nel 1999 ha pubblicato sulla rivista della Oxford University Press un articolo dal titolo "The Audience". Lo scritto si apre con una citazione sconcertante da Ezra Pound, che traduco e riporto parzialmente: «Nessun esecutore può affidarsi all'emozione del pubblico. La musica nella sala da concerto deve contare solo su se stessa e sulla perfezione della sua esecuzione; come fosse sotto una campana di vetro. I membri del pubblico sono spettatori, che guardano qualcosa di cui non fanno in nessun modo parte, e quella cosa dev'essere in sé conclusa. Ne parlo in modo piuttosto pesante, ma non è una sciocchezza, e centinaia di carriere musicali sono state confuse proprio perché l'esecutore non ha capito quanto la musica dovesse condurre una vita interamente autonoma; quanto essa debba avere una propria esistenza, separata dal pubblico; quanto profondamente inutile sia mescolare il pubblico con la performance». Era il 1918, e Glenn Gould di là da venire. Ma oggi, la tradizione della sala da concerto ci ha portato ad ascoltare musica in spazi assolutamente isolati dal mondo esterno. Creiamo l'illusione e quasi una precondizione di silenzio assoluto. Tossire, agitarsi, scartare una caramella, o fare qualsiasi altro rumore è un sacrilegio, segno di ignoranza; interventi di un pubblico la cui presenza, ad eccezione dell'applauso finale, deve restare del tutto inudibile. «Beethoven avrebbe trovato questa concezione semplicemente assurda - commenta Botstein nell'articolo -. E dopotutto, a differenza del 1918, noi oggi possiamo ascoltare e vedere brillanti esecuzioni, assolutamente perfette, in totale isolamento sonoro, in cuffia, a casa nostra... Chi ha ancora bisogno di concerti dal vivo, o di un pubblico?».
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