Ad Amsterdam la musica parla di responsabilità
L’annuale edizione di Opera Forward Festival presenta in prima assoluta The Shell Trial di Ellen Reid e Antigone di Samy Moussa
Se la scorsa edizione vibrava di fremiti rivoluzionari, l’edizione 2024 di Opera Forward Festival ad Amsterdam propone una serie di variazioni sul tema della responsabilità, tema che ha ispirato le scelte del cartellone dell’intera stagione del massimo teatro lirico olandese. Si parla certo di responsabilità dei padri verso i propri figli, che nella discussione contemporanea si traduce principalmente in una riflessione sul degrado ecologico contemporaneo e sul mondo che lasceremo in eredità alle nuove generazioni. Su un piano diverso, la responsabilità coinvolge anche la dimensione più strettamente produttiva dell’opera, che chiama in causa l’impatto ambientale e la sua sostenibilità non solo economica oltre all’urgenza di aprirsi a pubblici sempre più vasti e diversi attraverso proposte che parlino la lingua del presente e aprano un dialogo con le nuove generazioni. A giudicare dall’elevato numero di spettatori negli spettacoli del week-end di chiusura del festival e dall’accoglienza generalmente entusiastica riservata a spettacoli non certo popolari sulla carta, il messaggio arriva e fa ben sperare per il futuro del genere operistico.
Arie sulle quattro note
Sostenibilità vuol anche dire pensare agli interpreti di domani e ad Amsterdam come ormai nella gran parte dei grandi teatri internazionali da anni funziona un’Opera Studio, che trasforma studenti freschi di studio nei professionisti di domani. Opera Forward offre anche questo: il primo palcoscenico per studenti alle prime armi come per quelli che sono già pronti al grande salto. Se dei primi si apprezza soprattutto lo sforzo di mettere in piedi piccole produzioni nate all’interno di scuole o università di arti performative, l’Opera Studio ha invece proposto uno spettacolo che ha tutti i crismi per rientrare nel programma ufficiale: The Four Note Opera dell’americano Tom Johnson, classe 1939, più noto per aver introdotto il “minimalismo” nel linguaggio musicale (“The Slow-Motion Minimal Approach” il suo articolo seminale del 1972 in The Village Voice) che per i suoi lavori, che l’hanno classificato ad honorem proprio nel minimalismo anche se sono piuttosto dei giochi sulle forme o degli esercizi di logica numerica.
Come dichiara il titolo, si tratta di una farsa con musica costruita su quattro note – la, si, re, mi – che termina con un suicidio di massa, quando i cantanti diventano immobili e la musica lentamente si ferma. Minimalista nei mezzi ma non certo nella creatività (sorprende davvero quanto si possa fare con sole quattro note!), per The Four Note Opera si è addirittura fatto il nome di Luigi Pirandello, citato dallo stesso Johnson fra i suoi modelli, ma si tratta piuttosto di un lavoro divertente e spigliato che gioca sugli intramontabili stereotipi dell’opera con una grande freschezza rimasta pressoché intatta cinquant’anni dopo la sua creazione.
Si tratta anche un lavoro ideale per un saggio di scuola, non solo perché sollecita una vasta gamma di tecniche vocali ma soprattutto perché, attraverso la mise en abyme, obbliga il giovane interprete a mettersi in gioco attraverso identità definite da altri. “This is the way the opera is written – we have no control over such things”: è la battuta tormentone declinata lungo tutto il breve lavoro in diverse intonazioni come riposta agli agguati del compositore, quasi a prendere distanza dal materiale che si rappresenta, sia esso una prova di bravura vocale o di protagonismi frustrati (e ne soffre soprattutto il tenore, cui è destinata una sola aria, come continua a ripetere senza farsene una ragione).
Il lavoro va in scena nel nuovissimo Studio Boekman, spazio polivalente ricavato negli ampi spazi del Muzietheater, con la brillante regia di Kenza Koutchoukali in uno spazio smaccatamente teatrale creato dallo scenografo Yannick Verveij (anche costumista) con tutto ciò che definisce un teatro: riflettori, un enorme lampadario di cristallo, un grande sipario rosso e una pedana con tutto attorno un paesaggio di sedie come durante una prova.
Giovani ma già bravissimi i cinque interpreti – il soprano Soprano Sophia Hunt, il mezzosoprano Martina Myskohlid, il tenore Salvador Villanueva, il baritono Georgiy Derbas-Richter e il basso (parodia del Commendatore che però non vuole rassegnarsi a morire) di Mark Kurmanbayev – tutti provenienti dall’Opera Studio del teatro, e debitamente istruiti dalla direttrice Rosemary Joshua. Dal lato dello spazio scenico li accompagna al pianoforte con una punta di spirito il giovanissimo Daniel Ruiz de Cenzano Caballero.
L’opera al carbonio
Nasce con ben altre ambizioni The Shell Trial presentata in prima assoluta sul palcoscenico principale e nata da un testo teatrale del 2020 di grande successo nei Paesi Bassi, De zaak Shell di Rebekka de Wit e Anoek Nuyens. Il tema è quello di un caso giudiziario di attualità e non ancora concluso che ha visto l’organizzazione ambientalista Milieudefensie portare in tribunale il colosso petrolifero Shell per le responsabilità nei cambiamenti climatici. La prima fase del processo si è conclusa con la vittoria temporanea di Milieudefensie, ma Shell ha annunciato ricorso contro la sentenza del tribunale che inizierà fra poche settimane. Il testo cerca di astrarsi dalla stretta attualità per presentare le ragioni delle diverse parti in causa la Shell, in primo luogo, ma anche la Legge, il Governo, il Consumatore, l’Attivista ambientalista, lo Storico e poi le varie categorie coinvolte dagli agricoltori, ai lavoratori dei combustibili fossili e via dicendo.
La librettista Roxie Perkins ha ripreso l’idea dal testo teatrale costruendo una successione di monologhi di taglio pesantemente didascalico (quando non banali) e una conclusione affidata a un coro di ragazzi, vittime principali del degrado ambientale, che puntano il dito contro le responsabilità delle generazioni precedenti, politica coloniale olandese compresa (l’attuale Shell ha infatti assorbito società create nel passato per lo sfruttamento delle risorse energetiche delle colonie olandesi). Nonostante la conclamata equidistanza dalle parti in causa sulle responsabilità dell’attuale crisi climatica e l’esplicitazione del cortocircuito di conflitti di interesse incrociati, inevitabilmente il lavoro finisce per diventare un’esaltazione delle ragioni delle vittime (i “future players” nel libretto) nell’apoteosi dal sapore comunque pessimistico del finale. Quanto alla musica di Ellen Reid, alla sua seconda opera dopo p r i s m del 2018 premiata con il Pulitzer Prize for Music nel 2019, stenta a trovare una forza e un carattere che vada oltre il puro commento della frammentarietà dei monologhi chiudi che formano la sua essenza drammaturgica.
Il tema ecologista investe anche l’allestimento (a impatto zero o quasi) firmato a quattro mani da Gable Roelofsen e Romy Roelofsen del collettivo teatrale Het Geluid di Maastricht, in realtà una sorta di versione concertante con proiezioni sullo sfondo e orchestra sul palcoscenico come i numerosissimi interpreti, tutti vestiti di costumi da trovarobato e fatti di materiali in gran parte riciclati di Greta Goiris e Flora Kruppa. Al centro della scena il direttore Manoj Kamps, anche lui costumato, dirige con impegno un lavoro piuttosto statico come un oratorio del passato animato da figure allegoriche, fra le quali vale la pena segnalare Lauren Michelle, nel doppio ruolo di the Artist e the Law, Claire Barnett-Jones, nelle contorsioni anche vocali del Government, Audun Iversen, il manager (che poi rappresenta la Shell ma immaginiamo non si possa dire per evitare conseguenze legali), e Jasmin White, l’Historian che ha il distacco compassionevole di Erda, che tutto ha visto e di tutto tiene memoria, ed Ella Taylor, la stralunata Activist, mentre gli altri emergono poco nella polverizzazione dei ruoli minori. Infallibile mezzo di captatio benevolentiae, il coro dei giovani scelti nella Scuola di Musica Waterland e da diverse scuole della grande Amsterdam e Almere, cui è affidata tutta la parte finale di questo lavoro, conquista la simpatia del pubblico che risponde con grande entusiasmo a un lavoro che non nasconde tutte le sue evidenti debolezze.
Edipo e la figlia
Si muove su binari più tradizionali la produzione di punta dell’Opera Forward Festival di quest’anno, anche destinata al palcoscenico principale: Oedipus Rex di Igor Stravinskij a cento anni dalla prima parigina seguito dalla novità Antigone del canadese Samy Moussa. È fin troppo facile affermare come il lavoro di Stravinskij regga ancora benissimo il confronto con il recentissimo lavoro di Moussa, che affonda anche le radici nei miti classici. Se il Sofocle nel latino di Cocteau messo in musica da Stravinskij freme di una violenza arcaica, il Sofocle in greco di questa nuova Antigone (integrato con frammenti da Eschilo, Apollodoro, Empedocle, Euripide e Filostrato il vecchio) è soprattutto un brillante esempio della sapiente maestria di orchestratore del giovane compositore canadese. Questo suo nuovo lavoro è più un’azione coreografica con corredo di coro femminile (in contrapposizione a quello tutto maschile di Stravinskij). Come nella tragedia antica, anche qui al coro spetta una funzione di commento delle vicende rappresentate in forma coreografica, dall’acrobatico conflitto fra Eteocle e Polinice (rispettivamente Fabio Rinieri e Dingkai Bai), figli di Edipo e Giocasta, al rifiuto di Antigone (Qian Liu) all’ordine di re Creonte di non dare sepoltura al corpo del fratello Polinice, alla sua condanna e al suicidio nella cella murata, dove viene rinchiusa.
A prove iniziate il previsto coreografo britannico Wayne McGregor ha abbandonato il campo e al suo posto sono arrivati Mart van Berckel, già regista di Ändere die Welt! nella scorsa edizione di Opera Forward, per Oedipus Rex e la coreografa Nanine Linning per Antigone. Il dispositivo scenico è stato ripensato a partire da quello già predisposto da Vicky Mortimer per McGregor fatto di semplici pareti curve spostate e vista da tecnici sul palcoscenico rotante. Un certo classicheggiante rigore ispira anche le scelte dei costumi dai colori neutri sullo spettro dal bianco al nero. Restano comunque i molti punti di contatto fra i due spettacoli con rimandi reciproci attraverso l’apparizione di personaggi in flash-back/flash-forward (ad esempio Antigone, che sostiene il padre Edipo nella tragedia appena compiuta) e presentati quasi senza soluzione di continuità con solo una breve chiusura di sipario per permettere alla Narratrice di accompagnare pietosamente fuori scena Edipo accecato: un momento di raccoglimento fra la tragedia appena compiuta e quella che seguirà.
Sul piano musicale, la direzione di Erik Nielsen tende a levigare fin troppo la partitura di Stravinskij, si direbbe per farne quasi un unicum con quella di Moussa, che si impone per la ricchezza del prezioso ordito orchestrale (e va senza dubbio elogiata la Netherlands Philharmonic Orchestra). Ne guadagna il canto che, accanto alla solida prova del Coro dell’Opera nazionale olandese (solo maschile in Oedipus Rex e solo femminile in Antigone), ha in Sean Panikkar un Edipo di intensa sensibilità, emotivamente penetrante. Non così il resto del cast, nel quale spiccano soprattutto la Jocasta di Sarah Connolly soprattutto per il carisma dell’interprete, il vigoroso messaggero di Frederik Bergman e Nazmiye Oral, nel ruolo recitato della Narratrice, molto presente nell’azione scenica.
Chiusa l’edizione 2024, Opera Forward Festival guarda già alla prossima edizione, che vuole essere un’occasione per uno sguardo sul passato e una riflessione intergenerazionale su identità e sul futuro che vogliamo attraverso tre produzioni: We are the lucky ones di Philip Venables, Nina Seagal e Ted Huffmann, che traccia un ritratto della generazione nata nel secondo dopoguerra, Codes di Gregory Caers, che disegna una mappa dei rituali contemporanei di una città multiculturale, e OUM, che combina l’universo musicale della cantante egiziana Oum Kalthoum con il romanzo Visage retrouvé dello scrittore canadese di origine libanese Wajdi Mouawad per una riscoperta delle radici culturali da parte della generazione dei figli di immigrati.
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