Ad Amsterdam dietro la favola di Humperdinck
Successo per Königskinder con la direzione di Marc Albrecht e la regia di Christof Loy
Non è certo frequente vedere nei teatri Königskinder (Figli di re), opera fiabesca di Engelbert Humperdinck, assai meno nota di Hänsel und Gretel, che, almeno nei paesi di lingua tedesca, se la batte alla pari con Die Zauberflöte nelle preferenze del pubblico più giovane. Questo lavoro nasce non già da una favola ma da un testo teatrale di successo di Elsa Bernstein Porges del 1895, firmato con lo pseudonimo di Ernst Rosmer, che da diverse favole prende a prestito archetipi e di esse mutua il linguaggio simbolico. Ricevuta la richiesta di comporre le musiche di scena per il lavoro della Porges, Humperdinck opta invece per una versione interamente musicata ma in forma di melologo, che debutta con successo a Monaco nel 1897. Incoraggiato da critici e personalità musicali illustri come Cosima Wagner, a questa versione farà seguito la versione operistica, sfrondando non poco il testo originale, presentata per la prima volta con grande successo alla Metropolitan Opera di New York nel dicembre 1910, solo una quindicina di giorni dopo il trionfo nello stesso teatro de La fanciulla del West di Puccini, che apprezza moltissimo il lavoro del collega. Un successo che la porta l’anno dopo a Berlino e a Milano, dove arriva già nel 1911 al Teatro alla Scala con la direzione di Tullio Serafin e Lucrezia Bori e Giuseppe Armanini protagonisti, prime tappe di una parabola fortunata ma di vita breve. Già un decennio dopo, infatti, tramontato un certo gusto per il simbolismo che intride la complessa trama favolistica, l’opera praticamente scompare dalle scene. A parte qualche sporadica ripresa, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso l’interesse per quest’opera ha conosciuto una certa timida ripresa con vari allestimenti, fra questi uno a Zurigo con un giovane Jonas Kaufmann nel ruolo del figlio del re (ne esiste anche una registrazione) e uno anche al San Carlo di Napoli.
Non è andata molto meglio nei Paesi Bassi dove era stata allestita nel 1912 prima dell’ultimo allestimento appena andato in scena con successo all’Opera Nazionale Olandese di Amsterdam. Per l’occasione si è formato di nuovo il “dream team” con il direttore d’orchestra March Albrecht e il regista Christof Loy, entrambi artefici del recente riuscito allestimento alla Deutsche Oper di Berlino di Der Schatzgräber di Franz Schreker, opera che condivide più di uno spunto con Königskinder, ad esempio il gusto tardo-medievalista, la figura di un menestrello come chiave di volta della vicenda, una visione radicalmente pessimistica sulla natura umana, per tacere della comune appartenenza al filone del post-wagnerismo ancora rigoglioso nei primi decenni del Novecento.
Come anche nello Schatzgräber, Christoph Loy sceglie un ambiente unico per ambientare l’articolata vicenda: se in Schreker trionfava il nero, qui lo spazio è bianco e quasi astratto (la scena è di Johannes Leiacker), fatta eccezione per un enorme tiglio e la piccola dimora in mattoni della strega nel primo e terzo atto, mentre nel secondo una selva di sedie bianche serve la festa paesana. Il clima è gioioso, come raccontano le danze che animano l’apertura del primo e secondo atto e i luminosi colori della primavera nei costumi di Barbara Drosihn. Il sapore, tuttavia, è altrettanto amaro, specie nel finale sferzato dal gelo di un paesaggio invernale. Sotto l’apparente levità di toni della favola, Loy racconta con magistrale linearità una storia di discriminazione e di esclusione, che è la stessa che racconta il libretto sotto la superficie, intonata alla celebrazione della diversità conclamata attraverso manifesti e pannelli dall’Opera di Amsterdam.
Al villaggio di Hellabrun si cerca un prescelto per la corona, che si vuole “nato da sangue reale, forte, nobile e gioioso: un figlio di re!”. Può forse aspirare a esserlo l’esile guardiana delle oche, che vive isolata nel bosco con un’anziana strega? Per di più la ragazza è la figlia di una donna che ha preferito a un nobile l’assistente del boia, che per amor suo uccide (“l’abito del peccato, è quello di tuo padre, la corona di puttana l’hai ereditata da tua madre”, le dice con sfrontata spudoratezza la strega, sua tutrice). Ma non può nemmeno aspirare al trono il vero figlio del re, che, per aver eletto quella donna a sua compagna, patirà con lei dapprima l’ostracismo dal villaggio e quindi la miseria assoluta, trovando nella morte con l’amata il compimento di un’impossibile felicità. Alla strega, anche lei una “diversa” nel piccolo mondo di Hellabrun dove trionfa il conformismo, toccherà anche un destino peggiore: accusata delle sciagure che si abbattono sul villaggio dopo il rigetto del figlio del re e della sua sposa, viene condannata al rogo e arsa viva. Come nella Lulu, Loy ricorre a un espediente filmico in un rigoroso bianco e nero sul preludio musicale del terzo atto per mostrare ciò che nel libretto non è detto o è solo alluso: il pogrom con il rogo della strega davanti agli abitanti del villaggio e la violenta punizione del menestrello reso zoppo, colpevole di aver sostenuto e difeso la sfortunata coppia. A lui, testimone impotente della morte della guardiana delle oche e del figlio del re, resta solo l’amara consolazione dei bambini, che, disobbedienti, si ribellano ai padri, contro i quali puntano il dito accusatore: “voi siete i colpevoli”.
Il rigore della realizzazione scenica trova anche sul piano musicale una esecuzione di grande forza grazie alla direzione di Marc Albrecht, confermando, una volta di più, la grande affinità con il mondo musicale tardo-romantico tedesco. Mai enfatico nonostante la massa orchestrale, Albrecht punta su una esecuzione di intenso lirismo, che lascia esprimere la parola e dà straordinario risalto al delicato colorismo naturalistico della trama strumentale (gli emotivamente intensi assoli del violino solista che accompagnano spesso il canto sono eseguiti sul palcoscenico da Camille Joubert, “Liebe” in locandina, vestita di un rigoroso abito nero da concerto di foggia maschile). Di grande spessore la prova della Netherlands Philharmonic Orchestra capace davvero di mille colori.
Locandina pressoché priva di punti deboli anche nei ruoli minori. Davvero ottimi i due protagonisti Olga Kulchynska, la guardiana delle oche tutta risolta sul piano di un introverso lirismo, e Daniel Behle, il figlio del re nella cui linea di canto risalta una vena di malinconia. Grande prova anche di Josef Wagner, un menestrello reso vividamente nella sua metamorfosi da creatura beffarda a uomo compassionevole, piegato dalla sofferenza espressa con accenti di calda umanità. La veterana Doris Soffel è una strega apprezzabilmente priva di ogni esagerazione da caricatura, mentre Sam Carl e Michael Pflumm, interpretano rispettivamente il taglialegna il fabbricante di scope con misurata dose di humour. Fra i numerosi ruoli minori, spiccano Anna Kemper, la figlia del fabbricante di scope, giovanissima ma già molto disinvolta in scena, e Kai Rüütel, la figlia dell’oste ben resa con tutto il suo carico di sfrontata trivialità. A loro si aggiungono il Coro dell’Opera nazionale olandese e il Nieuw Amsterdams Kinderkoor con una marcante partecipazione anche scenica nella vivacità del secondo atto.
Sala al completo alla seconda recita del cartellone, molti i bambini presenti, caldi applausi.
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