Viaggio al termine del Nulla

Padova: Haas, in vain con Angius e l’Orchestra di Padova e del Veneto

Angius e l’Orchestra di Padova e del Veneto
Angius e l’Orchestra di Padova e del Veneto
Recensione
classica
Padova, Auditorium «Cesare Pollini»
Concerto al buio
20 Marzo 2025

Nel 2000 Georg Friedrich Haas diede alla luce in vain (tutto minuscolo), una composizione per orchestra di 24 strumenti (i classici, niente ghironda o theremin), che Sir Simon Rattle definì «one of the first masterpieces of the 21st century». Per essere bella, lo è. Il titolo allude all’infinita vanità del tutto, e traghetta nel ventunesimo secolo i temi cari al ventesimo: la ridefinizione di spazio e tempo, la perdita del centro, la disgregazione del soggetto, l’incertezza, l’instabilità. Temi che ormai ci fanno sentire a casa, temi, oseremmo dire, classici. Infatti la scrittura di Haas è classica; la struttura complessiva è una normale, benché immensa, forma-sonata. I suoi due poli sono il sistema temperato, con scale di Shepard che dilamano verso il basso dando un senso costante di frana; e lo spettralismo, con ondate di armonici microtonali che minacciano, ruggiscono, s’acquetano. I due poli vengono sviluppati e poi ripresi; una coda apocalittica chiude il brano. In mezzo, due sezioni dove è previsto che la luce in sala cali fino alla completa oscurità. Qui, «la comunicazione fra i musicisti avviene esclusivamente sulla base della situazione sonora», scrive Haas in partitura. Anche l’alea dunque, quando cala il buio, è controllata. L’ascoltatore vi ha la sensazione che il tempo diventi fumo, e lo spazio il vuoto grembo del Nulla. Solo l’arpa, nella prima sezione di buio, tenta di ricostruire una melodia, invano. Insomma, un gran pezzo, nemmeno troppo ostico, e perciò un applauso va di diritto tributato a Marco Angius e all’Orchestra di Padova e del Veneto per aver proposto in vain nella quinta edizione di «Veneto Contemporanea»: una rassegna, scrive Angius, coraggiosamente «inattuale» e «incurante del compiacere le masse», che infatti, da brave, non sono convenute. I venticinque happy few presenti all’Auditorium Pollini sembravano però soddisfatti. 

È difficile dire se l’orchestra abbia suonato bene o male. Talora si notavano delle imprecisioni. Che ci fossero in momenti di piena luce, càpita, e non sottilizziamo: la scrittura rimane molto complessa ed è un attimo contare una battuta in più o in meno. Sono cose che, per un’orchestra che ci crede, si risolvono con buona volontà e giorni di prove in più. E il loro effetto può essere neanche del tutto fuori luogo: ad esempio, c’è un momento in cui è previsto che gli ottoni in sezione incomincino a suonare compatti un motto, ma senza riuscire a concluderlo compiutamente. Se l’intonazione dell’attacco è incerta, come è accaduto, la sensazione che se ne ha è quella di un’ulteriore ombra di dubbio sul volto buono e fedele di Anton Bruckner. Che, a dir la verità, è un po’ il nume tutelare di in vain, e ci porta al tema cardine: la fede vs. il nichilismo. Giacché, quando cala il buio, il discorso delle imprecisioni tecniche s’ingarbuglia, e diventa metafisico. Se l’intento del compositore è far procedere i musicisti a tentoni, toglier loro la sicurezza del terreno sotto i piedi, costringerli ad avere come unici punti di riferimento i suoni prodotti dagli altri, dare a loro e a tutti il senso del buio che c’inghiottirà e della vanitas che ci polverizzerà, quello di attaccare lì e non là, di fare un arpeggio o un glissando, di suonare un do o un fa, non è, di per sé stesso, un atto di fede in qualcosa? Sembrava che l’orchestra si dividesse in creduli e increduli, in privilegiati con la fede e poveri cristi senza. Come si fa a dare un giudizio?

                                                                                                                       

 

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