Richard Dawson cantautore eccentrico
Nel nuovo album End of the Middle l’artista inglese mette in scena un’epopea familiare
![Richard Dawson](/sites/default/files/album/main_image/Dawson.jpg)
Per i nostri standard Richard Dawson sarebbe un cantautore, ancorché sui generis. Ne definiscono l’eccentricità i trascorsi: metallaro da adolescente e poi – mentre sbarcava il lunario facendo il commesso nei negozi di dischi a Newcastle – artefice di ambient elettronica in una decina di album firmati con lo pseudonimo Eye Balls.
Esperienze travasate nel modo obliquo che ha di affrontare la forma canzone, a suo dire influenzato dal qawwali pakistano e dall’oscuro musicista keniano Henry Makobi, avendo eletto Sun Ra a nume tutelare.
Risultato: “Lo scrittore di canzoni migliore e più umano della Gran Bretagna”, sentenziò “The Guardian” recensendo 2020, disco cui è seguito nel 2022 l’imponente “space opera” The Ruby Cord.
Rispetto a quegli antecedenti, End of the Middle – ottavo in sequenza – segnala un drastico ridimensionamento: “Volevo che fosse spoglio, ricondotto all’essenza, davvero nudo e crudo”, ha spiegato preliminarmente. A simboleggiarne l’intenzione è in particolare “Polytunnel”: elogio dell’orticoltura – “Oltre il cancello e su per il vialetto, l’orto mi chiama di nuovo, ci vado quasi ogni giorno, è il mio posto felice” – intonato in un habitat folk da Greenwich Village.
Intervistato da “Uncut”, ha affermato di essersi ispirato a Georges Perec e Alain Robbe-Grillet nella stesura dei testi, benché esaminandoli si abbia la sensazione di rileggere Carver, tale è l’attenzione al dettaglio, sia esso grottesco o struggente.
L’iniziale “Bolt” descrive ad esempio l’irruzione di un fulmine in casa: “Fisso sconcertato il telefono appeso al muro, ora un fiore beige carbonizzato e contorto”. Vale da introduzione alla sfera domestica in cui si svolge un’epopea familiare che Dawson sostiene di aver concepito prendendo a modello i film del regista giapponese Yasujirō Ozu, quando in verità l’analogia cinematografica più pertinente è forse il realismo sociale di Mike Leigh: la nonna che fantastica una vacanza in “Gondola” – “Non ho avuto mai la possibilità di andare a Venezia e quante estati mi restano? – sembra uscita dal cast di Another Year.
Il racconto è affidato a narratori di volta in volta differenti e incrocia argomenti che vanno dal bullismo (in “Bullies” chi lo subisce in gioventù diventa genitore di un figlio violento: “Ha fatto ancora a botte, ha rotto la mascella a un ragazzo”) allo shopping compulsivo (con inusitata verve pop “Boxing Day Sales” elenca merci in saldo: “Una macchina da caffè espresso in acciaio inossidabile, orecchini verde ambra, cuffie cancella rumore, un kimono trapuntato con gru in volo, non puoi permetterti di non possederlo”).
Eccezione visionaria è “The Question”, dove il fantasma di un capostazione decapitato aleggia sull’esistenza di una giovane donna in carriera: “Un uomo robusto in uniforme ferroviaria vecchio stile con la testa mozzata sottobraccio che sbatteva le palpebre”, canta il protagonista, la cui fragile voce in falsetto ricorda Robert Wyatt.
Si tratta dell’episodio più esteso – otto minuti scarsi – e musicalmente complesso della raccolta, all’orchestrazione del quale contribuisce ai fiati Faye MacCalman, in evidenza poi al sassofono in “Knot” (cronaca acida di una cerimonia nuziale: “Il discorso del testimone è una specie di squallida e pungente presentazione in Powerpoint della precedente vita di depravazione e degrado dello sposo”) e al clarinetto nelle sfumature “prog” di “Removals Van” (ritratto di famiglia in un trasloco).
L’epilogo è in chiave elegiaca: durante “More Than Real” un padre immagina la figlia neonata in età adulta al proprio capezzale, affidandone il ruolo alla compagna Sally Pilkington, con cui finisce per duettare nei versi conclusivi (“Le parole sono fondamenta del mondo, ciò che abbiamo creato è più che reale”). Non è dato sapere a cosa si riferisca il “mezzo” del quale il titolo dell’album decreta la fine, potrebbe essere l’età dell’autore – 43 anni compiuti – o il ceto dei personaggi messi in scena, ma il dubbio che ne deriva rafforza il senso dell’apologo, anziché indebolirlo.