La Decima di Mahler: un atto d'amore
Mahler alla Scala diretto da Gatti
![Daniele Gatti (Foto Silvia Lelli) Daniele Gatti (Foto Silvia Lelli)](/sites/default/files/styles/review_detail/public/review/main_image/gatti-s-lelli_5ce6e32e6b292_1.jpg?itok=VfJxkg-c)
È la prima volta che la performing version della Decima di Mahler realizzata da Deryck Cooke viene eseguita alla Scala, forse per un caso o forse perché non fa parte del catalogo ortodosso, in quanto la composizione originale completa si riduce all'Adagio Andante iniziale, mentre gli altri quattro movimenti sono rimasti solo abbozzati senza orchestrazione, per via della morte del compositore. Quando il musicologo inglese pubblicò la partitura nel 1959, ci furono polemiche e ne seguì anche il rifiuto a priori da parte di maheriani come Leonard Bernstein e Claudio Abbado. Daniele Gatti l'ha ora diretta per la stagione sinfonica scaligera, superando i preconcetti, perché questa Decima va ascoltata prima di tutto come un atto d'amore. Ma anche come documento di una forza creativa interrotta solo apparentemente dalla morte, perché chiunque abbia un po' di familiarità con Mahler si ritrova immediatamente nel suo mondo, grazie alla devozione di Cooke nel ricostruirlo. E pure a quella dello stesso Gatti, che ha "limato" qualche passaggio per ottenere il colore ideale. La felice congiunzione astrale, anche grazie a un'orchestra in forma smagliante, ha segnato una serata fuori dal comune al Piermarini, meritatamente salutata al termine da lunghi applausi in sala e dai battiti rituali sui leggii da parte degli orchestrali.
L'esecuzione ha messo in risalto le cifre mahleriane più evidenti, i momenti rarefatti degli archi alternati alle improvvise esplosioni dell'organico, come pure ha sottolineato le imprevedibili impennate dissonanti, che forse non vanno spiegate con un darwinismo musicale, ma di certo suggeriscono quali rovelli stavano maturando in Mahler, ormai consapevole della propria fine. Tra i momenti più convincenti, l'impervio ritmo dello scherzo affrontato con assoluta naturalezza, il diabolico e gelido terzo movimento. Ma forse è stato il quinto a confermare l'importanza dell'operazione voluta da Cooke. Il colpo di timpani, che chiude il quarto movimento, si ripete in apertura del finale per poi dialogare col basso tuba e il corno quasi fosse una discesa agli inferi. La cupa tensione è pari ai momenti più drammatici della Settima, per poi risolversi in una progressiva ed estenuante luminosità, che Gatti ha saputo calibrare con assoluta precisione e sempre, cosa non da poco, con un gesto elegante ridotto all'essenziale.
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