Pino Saulo, la voce notturna del jazz

Intervista al conduttore, che va in pensione dopo 30 anni di radio

Pino Saulo (foto @ Luciano Rossetti - PHOCUS)
Pino Saulo (foto @ Luciano Rossetti - PHOCUS)
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Potrei iniziare questo pezzo in modo tradizionale, annunciando con tono vagamente solenne come in questo inizio di 2025 il mondo del jazz italiano sia stato scosso dalla notizia che Pino Saulo, storico conduttore “jazz” di RadioTre, se n’è andato in pensione.

Potrei anche partire dalla bella foto (scattata in occasione dell'ultima diretta dalla sala A di via Asiago lo scorso 13 dicembre) con cui la stessa RadioTre ha annunciato sui social l’ultima notte di conduzione di Battiti

La foto di un Pino Saulo che sorridendo solleva il braccio in un saluto così umano e inclusivo, nelle stesse ore in cui la rete fa rimbalzare le foto di un altro famigerato braccio alzato, assai meno umano e inclusivo (del tutto a prescindere dal significato politico, ben inteso).

Battiti Pino Saulo

Potrei partire dalla prima volta che Pino e io ci siamo incontrati, ma l’ho infilata un po’ furtivamente nell’intervista e quindi non serve.

Insomma potrei iniziare in molti modi e alla fine ho già iniziato per cui rubo solo poche righe all’attenzione di chi legge prima di lasciarvi alla chiacchierata con Pino.

Le rubo forse per dire un’ovvietà, ma che credo vada ribadita, insieme al più sincero ringraziamento per trent’anni di radio di grande qualità: il ruolo di Saulo nella diffusione e nella promozione del jazz in Italia è stato davvero ineguagliabile, per il garbo, la competenza, la spontaneità, la curiosità, la capacità di rendere speciali e al tempo stesso familiari non solo migliaia di musiciste e musicisti, di dischi e concerti, ma anche di festival e rassegne, collaboratrici e amici, una famiglia allargata che senza rigidità identitarie ha portato nelle sere e nelle notti radiofoniche la fervente vivacità dei mondi del jazz e delle musiche creative.

Con la medesima modestia e intelligenza Pino Saulo ha accettato di rispondere alle nostre domande, per ripercorrere questi straordinari trent’anni di musica e radio con quella voce che, senza far torto a nessuno, possiamo certo dire che mancherà a tutti.

Partirei un po’ dall’inizio della tua avventura radiofonica, con la collaborazione a una delle avventure più significative della radiofonia in Italia, Audiobox di Pinotto Fava. Cosa ha rappresentato per la tua concezione di radio quell’esperienza?

«È stata un’esperienza fondamentale e formativa. Audiobox era il programma che si occupava della ricerca radiofonica, della radio art: un’idea di drammaturgia sonora con un passato importante alle spalle ma ancora con tante feconde possibilità».

«Lavorare con Pinotto e, di conseguenza, venire a stretto contatto con una serie di musicisti, di artisti (Alvin Curran, Alberto Grifi, Giuseppe Chiari, Roberto Paci Dalò e tanti tanti altri) e operatori (tra tutti Armando Adolgiso, scomparso pochi giorni fa, a lungo collaboratore di Pinotto, ispiratore e cospiratore di tanti programmi) ha significato entrare in un mondo affascinante e rutilante, in cui nulla era scontato e la possibilità di fare e inventare cose andava di pari passo quasi solo con la fantasia».

«Da Pinotto ho ricevuto la concretezza della libertà di agire, di osare, di non fermarsi ai risultati più ovvi e scontati. Il programma fu chiuso dopo il pensionamento di Pinotto. A posteriori, va detto che la specificità e la precipuità del mezzo radiofonico, dovuta anche alla possibilità di utilizzare certi macchinari, stava venendo meno con l'avvento di computer e sistemi di riproduzione e trasformazione del suono sempre più domestici e convenienti».

«Oggi ad esempio conoscono una normale diffusione discografica dei lavori che all’epoca non avremmo neanche pensato potessero “funzionare” al di fuori dell’ascolto radiofonico…»

Il passaggio alla programmazione jazz avviene alla metà degli anni Novanta. Qual era allora la situazione del jazz alla radio? Io ricordo ancora negli anni Ottanta il lavoro di Paolo Padula, oltre ovviamente a Mazzoletti, Cerri e Intra…

«All’inizio del 1995 Stefano Geraci, curatore di Radiotre Suite, decide di prendere in mano la programmazione jazzistica che, dopo che Pasquale Santoli era passato a un altro settore, aveva sofferto di continuità. Prima di allora c’era stata questa divisione con Adriano Mazzoletti a Radio1, Paolo Padula a Radio2 e, per l’appunto, Pasquale Santoli a Radio3».

«Santoli aveva fatto delle cose meravigliose: dai concerti dei grandi musicisti europei con la Big Band della Rai per Un certo discorso alle residenze di musicisti come Robert Wyatt. Io ho iniziato a occuparmi del jazz fin dall’inizio per poi passare alla conduzione e alla cura vera e propria nel giro di pochi mesi. Anni dopo mi fu chiesto di inventare e curare un’etichetta jazz per Rai Trade, che chiamammo Tracce ed ebbi il grande piacere e onore di pubblicare  ufficialmente quelle registrazioni di Wyatt».

Avevi all’epoca dei modelli? Delle idee di radio, anche non italiane, che ti avevano influenzato? Dei conduttori che ti ispiravano?

«Sono stato un appassionato ascoltatore di radio fin da bambino. Seguivo tutti i programmi musicali: da Hit parade a Per Voi Giovani. Negli anni Ottanta ci fu la magnifica rivoluzione della stereo e ogni notte mi addormentavo ascoltando Stereonotte. Ero particolarmente vicino a conduttori come Emiliano Li Castro, Fabrizio Stramacci, Marco Boccitto (tuttora il numero uno della radio!)...

Dalla metà degli anni Settanta c’erano le radio libere e, tra queste, le radio di movimento, con una programmazione musicale aperta e attenta.  Ma l’idea di una radio da fare è venuta via via nel corso degli anni, attraverso slittamenti, ipotesi, prove, contatti, suggerimenti…»

Tra le trasmissioni che hai ideato (e a cui sono molto affezionato, anche perché ho avuto l’onore di condurne alcune puntate) ci sono Invenzioni a due voci e Fuochi. Cosa hanno rappresentato per te e che tipo di rapporto andavano a costruire con le ascoltatrici e ascoltatori?

«Invenzioni a due voci è stato l’unico programma che non ho ideato. È nato da un’idea di Stefano Geraci e Michele Dall’Ongaro. Io, assumendone la cura, credo di averlo indirizzato verso un’idea di “palestra” dove ogni settimana si incontravano pianisti e conduttori e dove se ne sono sentite delle belle con i pianisti che improvvisavano -  sulla base delle scelte dei conduttori - ognuno con il suo stile e con il suo metodo (sulla melodia, sul giro d'accordi, su cellule tematiche e/o ritmiche, timbro etc.)». 

«La cosa di cui vado più fiero è la quantità impressionante di pianisti (e di conduttori, critici, giornalisti, operatori del settore) che sono passati: dai più famosi (Gaslini, D’Andrea, Intra, Pieranunzi, Rea) ai più giovani e finanche giovanissimi. È stata una serie fortunata e di grande impatto».

«Fuochi nasceva, come indica il titolo, da un’idea semplice: un gruppo di amici intorno a un fuoco, la sera, e chi più sa racconta. Anche lì c’è stato un gran numero di conduttori che si alternavano a illustrare scene musicali, artisti, periodi, stili, strumenti senza alcuna preclusione di genere, passando dal soul al jazz al rock».

«Entrambi i programmi sono finiti prima che i social assumessero tanta rilevanza e quindi giocoforza le reazioni arrivavano attraverso canali più statici. Però mi sembra che andassero bene entrambi. Sicuramente i pianisti amavano molto prendere parte a Invenzioni a due voci»

In tanti anni hai trasmesso anche moltissimi concerti, dai più svariati festival della penisola: cosa ha significato per te restituire, oltre alla musica, anche la personalità di queste esperienze? Quali le sfide della diretta, qualche aneddoto curioso di imprevisti o sorprese?

«Be’ tu lo sai, ci siamo incontrati tante volte in queste occasioni. Le dirette sono affascinanti. Ho sempre avuto la necessità di recarmi in teatro (o nelle arene, nelle piazze, ovunque fosse il luogo del concerto) a tempo debito, per entrare nel pieno dell’atmosfera così particolare che si respira prima di un concerto, quasi per immergermici dentro. Anche quei tempi morti nei quali apparentemente non succede nulla - i musicisti ciondolano tra palco e backstage, i fonici cercano di fare il loro lavoro, i fotografi scattano da tutte le angolazioni possibili, con tanta gente in giro - mi sono sempre stati necessari per entrare a fondo in quell’atmosfera e per cercare di restituirla».

«Il più delle volte ho preferito interloquire il meno possibile con i musicisti, per non disturbare, per non distoglierli dalla concentrazione ed ho sempre voluto mettermi in una posizione che limitasse al massimo i disagi per il pubblico, quindi di lato, un po' di nascosto, di modo che potessi vedere bene il palco ma senza frappormi tra il palco e gli spettatori».

 «Il più delle volte ho preferito interloquire il meno possibile con i musicisti, per non disturbare, per non distoglierli dalla concentrazione».

«Tanti gli incontri memorabili, o gli imprevisti (a un concerto di Cecil Taylor dal palco del festival Ai Confini tra Sardegna e Jazz, fui costretto a parlare per una buona cinquantina di minuti - inventandomi non so più cosa - prima che Taylor si decidesse a salire sul palco e a iniziare il concerto). Ricordo con particolare emozione il concerto finale del festival New York Is Now! con l’esibizione di William Parker nel progetto dedicato alle canzoni di Curtis Mayfield. Il festival ebbe un gran successo, con la sala dell’Auditorium piena e con i musicisti (quasi tutti) che si trattennero per tutti e tre i giorni. Quel concerto finale (magnifico! anche questo poi è diventato un cd per l’etichetta Tracce/Rai Trade) ne rappresentò l’apoteosi, con il pubblico entusiasta e tutti i musicisti sul palco».

Ricordo che a inizi anni Duemila, quando ancora scrivevo per AllAboutJazz Italia, ti chiedemmo se volevi collaborare con la testata e la tua risposta è sempre stata per me di grande lucidità ed esempio, perché rifiutasti cortesemente dicendo (vado a memoria) che facendo radio avevi già la responsabilità di cosa trasmettere e cosa no e che non servivano le parole… al termine di questa tua avventura lavorativa che cosa ti ha lasciato questa (bella) responsabilità?

«Ah ah, sì, era più o meno così… beh diciamo che la radio - all’epoca, oggi l’accesso ai dischi è estremamente più semplice -  dava un’opportunità in più: alle nostre parole avrebbe fatto seguito la musica e chi ascoltava aveva la possibilità di formarsi un proprio giudizio». 

«Ricordo che dibattemmo anche sull’opportunità di una cattiva recensione… Per me è sempre stato fondamentale rispettare il lavoro di tutti i musicisti e di conseguenza fare un passo indietro, come critico, ed evitare di parlare male di qualche lavoro (anche se lo meritava…). Mi è sempre rimasta impressa una intervista con Sonny Rollins, se non vado errato, nella quale alla domanda sul rapporto con i critici, Rollins affermava di rispettare l’opinione di tutti e che tuttavia gli era capitato, a seguito di una critica negativa, di non trovare ingaggi per mesi e mesi…».

«L’idea insomma è quella di una critica militante, che fiancheggi e supporti i musicisti, dove ognuno ha i limiti ma anche le possibilità che il proprio ruolo offre e consente». 

«L’idea insomma è quella di una critica militante, che fiancheggi e supporti i musicisti, dove ognuno ha i limiti ma anche le possibilità che il proprio ruolo offre e consente. Ovviamente questo concetto può essere declinato in maniera differente. Per quanto mi riguarda, il fatto di lavorare nel servizio pubblico mi ha sempre spinto a cercare di fare delle scelte da una prospettiva più ampia che tenesse conto di un po’ tutte le varianti e le movenze di questa musica che tanto amiamo, anche al di là - ovviamente - dei miei gusti personali».

Arriviamo a Battiti, che è trasmissione di culto da ben 22 anni e che rappresenta una straordinaria isola di musica creativa nella radio pubblica. Come è cambiata la trasmissione col tempo e che cosa è emerso che non ti saresti aspettato all'inizio?

«Sicuramente la trasmissione ha iniziato ad aprirsi sempre di più ad altre musiche, grazie all’apporto di altre persone e soprattutto a quello che succedeva in giro».

«La parte elettronica è aumentata, c’è stata una maggiore apertura a suoni sia di derivazione post rock che ambient; reggae e dub tornano protagonisti ogni volta che è possibile e probabilmente c’è meno jazz di quanto ce ne fosse in passato».

«Ora, è chiaro che sto parlando di etichette e che, grazie al cielo, la musica continua a muoversi, i musicisti continuano a inventare percorsi sempre meno lineari e più mossi, accidentati; talvolta forse più frammentari o magari più acerbi ma mi sento di dire che c’è talmente tanta varietà e una quantità impressionante di cose interessanti. C’è un grande disordine sotto al cielo, insomma (e la situazione è eccellente, per chiudere la citazione)».

«Chissà, senza volerci paragonare, però forse è un percorso non troppo dissimile da quello di The Wire, con una apertura crescente a musiche meno etichettabili e meno definibili».

«Negli ultimi 3 anni abbiamo prodotto (in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma) due edizioni di Fauves! (una terza si è tenuta a dicembre a via Asiago e la stiamo trasmettendo in queste settimane): il titolo richiama un atteggiamento e una pratica artistica che privilegia le cromie forti, le campiture larghe, i contrasti accentuati, un linguaggio che gioca a essere sgrammaticato ma che in realtà anticipa, preannuncia il nuovo. Ecco, probabilmente questi artisti che sono venuti (da Binker & Moses a Eric Chenaux, da Gabriele Mitelli o Antonio Raia e Renato Fiorito a Wu-Lu, Ben LaMar Gay, Aho Ssan, Holy Tongue, New Future City Radio, Dan Kinzelman, PÖ) illustrano bene questo concetto».

Direi proprio di sì…

«Scusa la lunga sfilza di nomi ma forse è meglio tirar fuori i nomi che continuare a cercare definizioni che lasciano il tempo che trovano (per carità, le definizioni servono, ci mancherebbe, ma fare i nomi significa al contempo denotarli e connotarli)».

«Insomma, tutto questo era già presente in nuce e nei primi anni di Battiti però è venuto via via definendosi, connotandosi con maggior chiarezza nel corso degli ultimi anni. Ovviamente di importanza fondamentale sono stati gli scambi, vivificanti, con i tanti colleghi, amici, sodali, quelli che per esempio ci offrono la loro top 5 ogni anno e le interazioni con chi ci ascolta e nulla di questo sarebbe stato possibile senza il lavoro di Antonia Tessitore (che fa battiti dal giorno 1), di Ghighi Di Paola, di Simone Sottili e delle bravissime Chiara Colli e (da un paio di mesi) Nina Terruzzi».

In questi anni sei anche “uscito” dalle onde radio come organizzatore di concerti, ricordiamo le memorabili giornate di New York Is Now o di Fauves!, ma anche la collaborazione con la Biennale Musica… fatica ripagata?

«Ah sì, sì, certo. Organizzare un festival, idearlo, pensarlo, immaginarlo, cambiare di passo per adeguarsi a certe richieste e inventare nuove soluzioni…. ci perdi il sonno ma è fantastico! E sono veramente molto molto grato a chi mi ha dato questa possibilità, da Musica per Roma con Flavio Severini, Roberto Catucci (sotto la direzione di Carlo Fuortes abbiamo realizzato New York Is Now! e Le labbra nude) a Fabrizio Grifasi di Roma Europa fino a Lucia Ronchetti che ha realizzato una magnifica edizione della Biennale Musica».

«Senza contare le tante collaborazioni: con Area Sismica, con Aqusmatiq a Ancona o più di recente con i fantastici ragazzi di Miniera a Roma».

In questi 30 anni di jazz alla radio hai visto evolvere e trasformarsi i linguaggi: ci dici un paio di momenti chiave che secondo te hanno determinato la crescita (o no) del jazz nel nostro paese, sia come fruizione che come produzione?

«Forse citerei alcune scene che hanno dimostrato capacità di aggregazione e di evoluzione: penso alla scena bolognese dei primi anni Novanta, così varia, variopinta e ricca, tra il Laboratorio Musica e Immagine e il Collettivo Bassesfere; al collettivo El Gallo Rojo, così ricco di talenti; a una serie di musicisti toscani, così fortissimamente toscani come Dimitri Grechi Espinoza, Silvia Bolognesi, Emanuele Parrini, Beppe Scardino, Gabrio Baldacci… A questo punto però è difficile fermarsi qui… Bisognerebbe parlare dei talentuosissimi friulani! Dai grandi Giovanni Maier, Daniele D’Agaro e Claudio Cojaniz ai tanti giovani che hanno dato vita - per citare un solo gruppo - ai magnifici Maistah Aphrica!; ai lombardi (da Tononi e Cavallanti a quella generazione che oggi veleggia intorno ai 50 anni),  gli improvvisatori romani, storici e meno (da Schiaffini e Colombo a Spera e Colonna e i più giovani Baron, Manzo, Alessandrini). Mi fermo qui? Dovrei citare almeno i pugliesi, i siciliani, i sardi… Insomma, ce ne sono tanti. Hanno fatto tante cose belle, possono farne ancora di bellissime».

Uno dei primissimi ricordi che ho di te mi riporta al Festival di Verona e al tuo incuriosirti nella sala colazioni a una conversazione in cui citavo Age di Daniel Givens. All’epoca ne sono stato molto lusingato (“Pino Saulo che si informa da me su un disco!”), poi con gli anni ho capito che la curiosità è parte della tua indole e concorre al segreto della tua bravura. Quanto e cosa hai imparato dalle tante collaboratrici e collaboratori di Battiti negli anni?

«Battiti è un’officina. Ci si vede tutti i giorni (anche se dal covid in poi la situazione è giocoforza cambiata), si lavora fianco a fianco, quasi gomito a gomito. Magari hai la cuffia in testa ma poi alzi lo sguardo, attiri l’attenzione di qualcuno, chiedi di un disco, di un artista, scambi le tue opinioni, ascolti i consigli, li valuti, possibilmente ne fai tesoro. Il confronto è costante su cosa mettere: mi è sempre piaciuto pensare al programma come se fosse condotto da una voce unica che si incarna poi in forme diverse. La scelta di non annunciarsi, se non a inizio trasmissione, sta a indicare proprio questa volontà (necessità?) di… chiamiamola riduzione dell’io. Cosa che non significa ovviamente un azzeramento della propria individualità: ho sempre pensato - secondo una definizione famosa e felicissima - che il libero sviluppo di ciascuno fosse la condizione per il libero sviluppo di tutti…».

«Ora Battiti continuerà senza di me e magari troverà strade diverse, si incamminerà per percorsi ancora non esplorati… staremo a sentire, ce ne aspettano delle belle!».

«Ora Battiti continuerà senza di me e magari troverà strade diverse, si incamminerà per percorsi ancora non esplorati… staremo a sentire, ce ne aspettano delle belle! (a proposito, grazie ancora! Age è un disco meraviglioso. Purtroppo Daniel Givens è un po’ sparito, anche se di recente ha dato qualche segno di presenza…)».

Posto che tutti i figli sono belli uguali, così d’impulso mi dici i tre concerti più belli che hai trasmesso? Quelli che ti hanno emozionato di più, ecco…

Il momento di maggior soddisfazione e quello di maggior difficoltà di questi 30 anni?

«L’Art Ensemble of Chicago a via Asiago! Grazie a Isio Saba e a Enrico Iubatti (e anche quel concerto è diventato un disco). Roba da pelle d’oca, visto che il loro concerto romano del 1978 per me era stata un'autentica epifania».

«Il già citato concerto di William Parker a conclusione di New York Is Now! con il progetto Inside songs of Curtis Mayfield con Amiri Baraka».

«Forse la Exploding Star Orchestra di Rob Mazurek in diretta da Sant'Anna Arresi (e tra il pubblico c’era anche Amiri Baraka - aveva suonato con il Dinamitri Jazz Folklore - e alla domanda se pensava che Damon Locks si muovesse nel solco della sua tradizione, rispose: Sì, forse sì…ma di certo io non ho mai ballato bene quanto lui!)». 

«Ed evito di pensarci troppo su, rispondo d'impulso, come mi chiedi, perché altrimenti rischio di non finire più…».

«L’unico vero rammarico riguarda un’incomprensione con Henry Threadgill riguardo alla messa in onda di un suo concerto: è stata una esperienza spiacevole e ancora incomprensibile… Ma lui ovviamente è un autentico gigante della musica».

«E poi sono stato così fortunato ad aver incontrato tanti musicisti geniali che si sono rivelati essere persone meravigliose. Faccio solo alcuni nomi, sperando di non causare malumori, ma sicuramente ho nel cuore Butch Morris, Andrew Hill, Ornette Coleman, così come Franco D’Andrea, Enrico Rava, Danilo Rea… dai, vedi? è sempre imbarazzante dire queste cose…rimangono fuori talmente tante persone che poi magari ti senti in colpa per non averle nominate!»

Beh, abbiamo finito. La domanda mi sa che è d'obbligo: ora oltre a riposarti e farti gli affari tuoi, che hai voglia di fare?

«Allora, sembra che finalmente abbiano deciso di cominciare i lavori di prolungamento della metro vicino casa… questo significa nuovi cantieri, lunghi e laboriosi, da sorvegliare… con costanza, praticamente ogni giorno…».

«No, dai, spero di continuare ad occuparmi di musica, anche se in forme e ambiti diversi».

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