Pappano per Debussy e Busoni

I delicati e sintetici Nocturnes  del compositore francese e un Concerto monstre  di quello italo-tedesco: due lavori scritti a pochi anni di distanza, ma quanto diversi!

Pappano e Kholodenko (Foto Accademia di Santa Cecilia/MUSA)
Pappano e Kholodenko (Foto Accademia di Santa Cecilia/MUSA)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Pappano e Kholodenko, Accademia Nazionale di Santa Cecilia
30 Gennaio 2025 - 01 Febbraio 2025

Era l’unico concerto di Antonio Pappano in questa stagione nella sua nuova qualifica di direttore emerito dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia ed è stato sicuramente questo il motivo per cui l’auditorium non era semivuoto come sarebbe avvenuto se a dirigere questo programma fosse stato qualcun altro; ma i posti vuoti non erano comunque pochi. 

Pappano ha subito sedotto tutti col suo consueto discorsetto iniziale, aperto dall’ormai mitico saluto “caro pubblico”, con cui ha spiegato in due o tre minuti le musica che andava ad eseguire, con grande semplicità ma anche con chiarezza ed efficacia esemplari. Debussy non è Chopin e nei suoi Nocturnes  non bisogna cercare romantiche atmosfere sognanti e sentimentali ma una sinestesia di suono e colore. In Nuages, prima parte di questo trittico, Debussy traduce in suono tutte le infinite sfumature del grigio e il chiarore della luna, che a tratti traspare dietro le nuvole. Pappano sorprende iniziando con un suono che non corrisponde all’immagine eterea che normalmente abbiamo delle nuvole, soffici e vaporose. In realtà un cumulo di medie dimensioni può pesare cinquecento tonnellate, ma questo ora non conta. Con questo suono piuttosto sostanzioso e soprattutto “visibile” Pappano riesce a dare perfettamente la sensazione di queste masse di suono-colore, che si spostano lentamente, gradualmente si scompongono, si ricompongono in modo diverso, si sovrappongono. Non c’è il flou, quel suono vaporoso e nebbioso, che viene o piuttosto veniva considerato emblematico di Debussy. Questa notte è attraversata dalle nuvole ma l’aria è tersa e consente alla luna e alle stelle di rilucere nitidamente. Verso la conclusione il suono si assottiglia e si fa più chiaro, con un lento trascolorare: Debussy non dà alcuna indicazione precisa e lascia libero l’ascoltatore di immaginare, ma è chiaramente l’aurora. Un momento meraviglioso. 

In Fêtes il suono è più squillante, interrotto da lampi di luce, ma ora Debussy fa risuonare non soltanto i colori ma anche - senza riprodurli realisticamente - i rumori e le voci della festa notturna: ma da dove viene quella marcia oscura, misteriosa, minacciosa che si sente avvicinarsi nella parte finale di questo brano? Anche nel canto delle SIrènes – come ha ricordato Pappano nella sua introduzione – è insita una minaccia, perché quelle mitologiche creature cantavano per attirare i marinai contro gli scogli, ma Pappano e il magnifico coro femminile lo rendono talmente seducente, vaporoso e “profumato” (per azzardare un’altra sinestesia) che la minaccia non si avverte, così come non l’avvertivano gli improvvidi marinai. Raramente si ascolta un Debussy così affascinante.

Ma il piatto forte - se non altro per la sua durata - era il Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile in do maggiore  ? [il punto interrogativo è una mia aggiunta] op. 39  di Ferruccio Busoni. Busoni era toscano e aveva l’equilibrio e la perfezione formale rinascimentali nel DNA (e qui ci starebbe bene un altro punto interrogativo) ma d’altra parte era teutonico per la sua ammirazione illimitata per la cultura e la musica tedesche, Bach e Goethe in testa. Normalmente la sua musica fonde la misura, l’equilibrio e la ricerca del bello italiani con la seriosità tedesca. Con qualche eccezione, la più smisurata delle quali è proprio questo concerto monstre, che lo impegnò dal 1901 al 1904. Per la sua durata (un’ora e un quarto circa) e il suo organico (la grande orchestra sinfonica in uso negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, più il coro di voci maschili) questo Concerto appare sovradimensionato, ma è una scelta precisa di Busoni, che voleva dare un esempio - forse con una residua dose della sua ironia da toscanaccio - di tutto quel che si poteva osare mettendo insieme pianoforte e orchestra, più il coro nel movimento finale, senza porsi limiti e regole. 

Sono cinque movimenti, di cui il terzo è a sua volta suddiviso in quattro parti, ovvero in ulteriori quattro movimenti da eseguire senza soluzione di continuità. Questo terzo movimento, dalla durata wagneriana o bruckneriana o mahleriana, che dir si voglia, in cui autoritarie fanfare di ottoni si alternano a mistiche rarefazioni parsifaliane e a cento altre cose, è intitolato “Pezzo serioso”: alle sue quattro parti Busoni ha dato titoli in latino, con un po’ d’ironia, si suppone. Il quarto movimento è intitolato “All’italiana”: noi italiani, si sa, sappiamo goderci la vita siamo estrosi, vivaci, casinari eccetera, tutto tranne che seriosi. È una specie di pot-pourri, che comincia con una tarantella e prosegue inanellando citazioni - non sempre evidenti e riconoscibili - di canzoni popolari e brani d’opera, per finire in modo velocissimo, rumoroso, caotico. Per Il quinto e ultimo movimento, Busoni si è forse ispirato alla Fantasia op. 80  di Beethoven – che metteva insieme pianoforte, coro e orchestra per la prima volta nella storia della musica, a quanto si sa – o più probabilmente alla Sinfonia n. 9. Si basa su un inno, non però alla gioia ma ad Allah ed inizialmente era destinato ad un’opera mai portata termine e Busoni volle salvarlo, inserendolo in questo Concerto, anche perché tornava utile a sottolinearne la natura composita, che si faceva beffe delle tradizionali forme musicali classiche e del concetto stesso di classicismo. D’altronde finire con un richiamo a Beethoven voleva dire che anche i classici sapevano andare oltre le regole, quando volevano.

In questo concerto c’è tutto e di più e non si può sperare di darne conto in una recensione. È un coacervo di cose diverse poco o nient’affatto amalgamate tra loro e può risultare insensato, sconcertante, irritante, ma questo Busoni lo sapeva. Probabilmente proprio in questa assoluta libertà e in questa eterogeneità sta l’interesse di questo Concerto, che procede a fasi alterne, perché all’ascolto non mancano momenti anche lunghi, che lasciano indifferenti e anche un po’ annoiati. Lascia piuttosto stupiti che Busoni, uno dei più grandi pianisti della sua epoca, non sappia (o non voglia) trarre nulla di particolarmente nuovo e interessante dal suo strumento, che spesso si dilunga in ottave, scale, arpeggi e altre figurazioni tipiche, alternate a passaggi quasi civettuoli, non troppo diversamente da tanti pezzi virtuosistici post-lisztiani. È una parte lunghissima, difficilissima, faticosissima, che non offre al pianista grandi soddisfazioni: Vadym Kholodenko ha assolto il suo compito in modo assolutamente encomiabile, ma si aveva l’impressione che lo facesse per dovere più che con convinzione. Più viva e mossa la parte orchestrale: si sentiva che Pappano ama questo pezzo, tanto che l’aveva già inserito due volte nel programma dei suoi concerti romani, ma il covid aveva ci aveva messo la coda (però l’aveva portato in tournée con i complessi romani a Berlino e Amburgo). Alla fine gli applausi sono stati molto calorosi e ci sarebbe stato bene un bis, ma comprensibilmente il pianista ucraino era esausto.  

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Il Teatro Comunale apre la nuova stagione al Comunale Nouveau con un riuscito allestimento de La fanciulla del West di Puccini

classica

Il direttore svizzero alla guida della Filarmonica Toscanini ha proposto anche il Concerto per violino di Brahms con Boris Belkin solista

classica

Il concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto per il Giorno della Memoria