Mahler e Dallapiccola: presagi e meditazioni

Il concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto per il Giorno della Memoria

Marco Angius ( Foto Fenice)
Marco Angius ( Foto Fenice)
Recensione
classica
Padova, Teatro Verdi
Il concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto per il Giorno della Memoria
30 Gennaio 2025

Cinquant’anni corrono tra i Kindertotenlieder di Gustav Mahler e Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola. In mezzo, due guerre mondiali; una delle quali portatrice in Europa dello sterminio organizzato del popolo cui Mahler apparteneva. Cose che si sanno e che il Giorno della Memoria ci rammenta annualmente. Sulla scia di questa ricorrenza si è inserito il concerto tenutosi il 30 gennaio al Teatro Verdi di Padova, con l’Orchestra di Padova e del Veneto (OPV) diretta da Marco Angius.

Il programma è stato intelligentemente eseguito senza soluzione di continuità, come a gettare un ponte tra il prima e il dopo il disastro. A sua volta la lettura di Angius ha portato i due titoli a congiungersi, ma senza inventare nulla che non fosse già nella partitura: semplicemente, plasmando con l’orchestra due tipi di suono pressoché antitetici. Uno, cui appartengono il primo, il secondo, il terzo e il quarto Lied di Mahler, è il suono dell’orchestra wagneriana, con tecnica degli impasti, legati che emergono dalle profondità del golfo mistico, increspature sulla superficie del buio: ad esempio, lungo tutto il terzo Lied, il corno inglese e l’oboe fondevano timbro e fraseggio in una sola morbida nenia, voluttuosa ancorché presaga di morte. L’altro, cui appartiene il quinto Lied, ci porta in tutt’altro mondo: dissociazione dei timbri, durezze, asperità, profilature secche e senza l’obiettivo della gradevolezza. Siamo già piombati nel Novecento dell’espressionismo, della dodecafonia, della musica degenerata. E come l’OPV ha saputo essere due orchestre in una, così il mezzosoprano Katarzyna Otczyk, sia nei Kindertotenlieder sia come Madre nel Prigioniero, ha saputo essere due cantanti in una, e merita lodi per il dominio dei suoi mezzi nell’uno e nell’altro linguaggio, e per l’espressività che è stata in grado di cavare dall’esteso timbro che la natura le ha donato. 

Superstar della serata il baritono Bruno Taddia, a tutti noto per le sue doti di attore inscindibili da quelle di cantante. La sua lettura del Prigioniero è stata a dir poco rivelatrice. Si collocava in pieno spirito del racconto di Villiers de l’Isle-Adam da cui è in parte tratto il libretto. Borges lo paragonò a Il pozzo e il pendolo di Poe, poiché in entrambi vediamo messa a nudo «la crudeltà cui può giungere l’animo dell’uomo», ma aggiunse che «in Poe l’orrore è di ordine fisico; Villiers, più sottile, ci rivela un inferno di ordine morale». Taddia infatti, sottile anche lui, non grida come farebbe il prigioniero di Poe: sussurra. Il suo dramma si comprime nelle mezze voci, trattenuto dalla morsa di una tortura che è tutta nella mente, quale ricordo e terrore della reiterazione. Al tempo della composizione, Dallapiccola non poteva conoscere la frase di Jean Améry, sul torturato che rimane tale per tutta la vita; ma è come se, mettendo in musica Villiers, e facendolo in questo modo, inventasse a sua insaputa il vero. Angius, sulla stessa linea di Taddia, ha mantenuto cameristico il suono dell’orchestra dallapiccoliana, piena di tante correspondances tra strumenti, riverberate con inquieta freddezza. Se proprio dovessimo dire cosa mancava indicheremmo il calore, specialmente nei due intermezzi corali, ma la lettura era nondimeno coerente, e l’orchestra impeccabile. Una garanzia Stefano Secco come Carceriere-Inquisitore. Ottimo Xin Zhang come Primo Sacerdote. Scoperta: Giulio Iermini come Secondo Sacerdote, una voce a dir poco eccezionale. Grande serata per una doppia ricorrenza: oltre al Giorno della Memoria, il concerto celebrava il cinquantesimo anniversario della morte di Dallapiccola.

                                                                                                                       

 

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