Sogni d’oro dai Saint Etienne

L’avventura ipnagogica del trio londinese Saint Etienne in The Night

Saint Etienne
Disco
pop
Saint Etienne
The Night
Heavenly
2024

In dicembre, alla chetichella, i londinesi Saint Etienne hanno pubblicato un nuovo album, l’undicesimo in carriera: The Night

Benché artefici dell’operazione siano gli stessi individui di allora, gli amici d’infanzia Bob Stanley e Pete Wiggs, cui dopo l’esordio si unì stabilmente la cantante Sarah Cracknell, all’ascolto il risultato è distante dai successi degli anni Novanta: canzonette che scorrevano con disinvoltura nell’alveo della club culture, incapsulate in dischi quali Foxbase Alpha e So Tough

Volendo semplificare, potremmo dire che si tratta di una conversione alle musiche d’ambiente, per altro preannunciata nel 2000 in Sound of Water. Nelle note introduttive, lo scrittore connazionale Benjamin Myers lo paragona a “capolavori sonnambuli come From the Gardens Where We Feel Secure di Virginia Astley, Chill Out dei KLF e Spirit of Eden dei Talk Talk”. 

Da parte sua, Stanley ne sottolinea l’inclinazione ipnagogica: “Stavamo cercando di raggiungere lo stato intermedio fra la veglia e il sonno, uno spazio onirico, con pensieri dimenticati alla deriva, frammenti di dialoghi televisivi, nomi di luoghi, strade o campi di calcio in cui non sei mai stato”. 

Tema conduttore in chiave narrativa è lo scorrere del tempo, che “vola, scivola via”, dichiara l’ultimo brano, “Alone Together”, su accordi di Fender Rhodes e punteggiatura vagamente jazz di chitarra, mentre in coda alla traccia d’apertura, “Settle in”, la voce recitante affiora tra un chiacchiericcio indistinto e brumosi vapori sintetici dicendo: “Quando hai venti o ventun anni, sei pieno di fiducia, hai così tanta energia e fiducia, diventerà oro?”. 

Sessantenni o quasi, i tre rievocano l’euforia dell’età giovanile: “Che momenti abbiamo passato, le cose che dicevi sono ancora tutte nella mia testa”, intona Cracknell con dolcezza malinconica nel crescendo sommesso di “When We Were Young”. È uno degli episodi più suggestivi in repertorio, al pari di “Nightingale”, dove si distilla nostalgia in purezza: “L’amore se ne sta andando, lasciando spazio per respirare, significava per sempre, che eravamo tu e io”, ma “tutto ciò che resta è una canzone da cantare per te”. 

 Un sentimento di abbandono pervade pure “Preflyte”, fotografando un rito di passaggio: “Tutti i posti in cui andrai e le persone che incontrerai, i cuori che spezzerai e gli amici che ti farai, è difficile lasciarti andare, ma sapevo che sarebbe andata così”, confessa un genitore rivolgendosi al figlio. Il cromatismo seppiato della messinscena è rafforzato dalla consistenza “hauntologica” di alcuni arrangiamenti: nella simulazione cameristica genere The Caretaker di “Celestial” (“Le stelle formano il tuo nome”, le uniche parole pronunciate), oppure negli archi spettrali che arredano il mantra minimalista di “Hear My Heart”.

Sembra vogliano riverberare invece la levità dei Saint Etienne d’antan “Gold”, cantilena dall’umore esistenzialista (“Liberami da questa incertezza, dimmi quello che sai, libera la mia mente, diventerà oro”) decorata con pianoforte e oboe, e l’incantevole melodia di “Half Light”, incastonata in un fondale crepuscolare (“La potevo vedere attraverso gli alberi, nella penombra, penso di averla sentita sussurrare verso di me”). 

 The Night è dunque una strana creatura: né “pop” in senso stretto (dovrebbe esserlo viceversa il prossimo lavoro, in agenda per l’estate) né propriamente d’avanguardia, abita una terra di mezzo modellata sulle geografie inverosimili dei sogni.

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