Non è facile raccontare in dieci dischi un anno di ascolti. La quantità di musica nuova si fa sempre meno gestibile, con l'inevitabile conseguenza che a un certo punto bisogna fare delle scelte, limitare il campo. Resta però un esercizio stimolante, e a suo modo utile, provare a tracciare delle linee di tendenza, dei macro-movimenti. Ed ecco allora che, se si parla di jazz (perché è di jazz che qui si parla, alla faccia degli aspiranti sinonimi che nella loro ambizione di inclusività finiscono per essere ancora più limitati e limitanti), se si parla di jazz, dicevamo, qualche punto fermo lo si può mettere.
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Ad esempio la conclamata centralità di Chicago, rappresentata al meglio dalla qualità costante delle proposte targate International Anthem (Live at the Adler Planetarium dell'Exploding Star Orchestra di Rob Mazurek e Mighty Vertebrate di Anna Butterss avrebbero potuto benissimo far parte dei magnifici dieci); ma anche l'ascesa della nuova California, che ha beneficiato della spinta garantita dall'approdo da quelle parti di un musicista che fa scena da solo come Jeff Parker e di una serie di jazzisti di primissima fascia come Mark Turner, Larry Goldings, Dave Binney e Mark Guiliana (segnatevi il nome di questa etichetta: Colorfield Records).
Mettiamoci poi gli immancabili squilli newyorchesi e londinesi, la riscossa del caro, vecchio free (in troppi danno per morta l'improvvisazione libera ma c'è sempre qualcuno che trova il modo di rimetterla in pari con il presente), la vitalità scandinava della Hubro e della We Jazz, che dalla Finlandia ha allargato lo sguardo ad altri possibili orizzonti, e infine l'incredibile capacità di adattamento del piano trio (Tyshawn Sorey continua a rubare la scena, ma è giusto segnalare Run The Gauntlet di Kris Davis, Jamie Saft, con un disco dedicato a Monk, You Think This America dei TarBaby, al secolo Orrin Evans, Eric Revis e Nasheet Waits, e Sketches of the 20th Century di Franco D'Andrea, con Gabriele Evangelista e Roberto Gatto).
Spunti di riflessione, ipotesi, prima della canonica lista in ordine sparso (e non gerarchico) che non può non avere un taglio personale e che per una volta non contiene ristampe, anche se lasciare fuori l'inedito live del 1964 del quartetto di Joe Henderson e McCoy Tyner, Forces of Nature, è stato parecchio difficile.
1. [Ahmed], Giant Beauty (Fönstret)
Nel nome del bassista Ahmed Abdul-Malik, tra i primi a guardare all'Africa e al Medio Oriente attraverso la lente del vero jazz, Seymour Wright (sax contralto), Pat Thomas (piano), Joel Grip (contrabbasso) e Antonin Gerbal (batteria) fissano su nastro cinque estenuanti maratone free (parliamo di oltre 45 minuti l'una) che rimandano alla fonte di ispirazione facendo il giro largo: dalla New York delle barricate alla rabbia della diaspora anni Settanta, per un'idea collettiva e rituale di libera improvvisazione che si colloca fuori dal tempo. No discussion. No plan. No solos. Le tre regole della band dicono tutto sul modo in cui lavora sull'istante, sul flusso, sull'eterno presente del gesto creativo. A pelle vengono in mente i Center of the World di Frank Wright, Alan Silva, Bobby Few e Muhammad Ali, ma è più un'assonanza immaginifica, di concetto, che sostanziale. Basta e avanza comunque per darvi un'idea della forza d'impatto di un quartetto che macina live dal 2017. Credeteci e anche voi sarete salvati.
2. Goran Kajfeš Tropiques, Tell Us (We Jazz Records)
Anche qui si va di lunga durata: tre pezzi che oscillano tra i dieci e i tredici minuti, tre variazioni sul concetto di “ambient jazz” che riportano alle versioni meno concitate della Fire! Orchestra, della quale il trombettista Goran Kajfeš è colonna portante fin dall'inizio, e al meglio della Scandinavia avant-folk, quella che ha imparato da Don Cherry a giocare di sponda con il resto del mondo e che il padrone di casa ha deciso di abitare fin dai tempi (benedetti) della Subtropic Arkestra. World music per ascoltatori inquieti, per anime pellegrine. Che il viaggio abbia inizio: destinazione, la meraviglia.
3. Weird of Mouth, Weird of Mouth (Otherly Love)
Il free è morto, viva il free! D'altronde con Mette Rasmussen (sax contralto), Craig Taborn (pianoforte) e Ches Smith (batteria) non è che si può pensare di passarla liscia. Fuoco, fiamme e giù di mazzate. Come se il trio di Cecil Taylor si fosse dimenticato di registrare un ultimo disco prima di consegnarsi ai libri di storia. Sette concentrati di pura cattiveria, di compiaciuto accanimento, che fanno l'effetto di una liberatoria catarsi. Astenersi jazzisti con lo sciarpino.
4. Alexander Hawkins & Sofja Jernberg, Musho (Intakt Records)
Dall'Etiopia all'Armenia, dalle coste inglesi a quelle svedesi, voce e pianoforte per un recital globalista che partendo dalle tradizioni locali riporta alle pagine migliori della musica del Novecento (Berio e non solo), ai lieder di scuola tardo romantica e a quello splendore che era il duo Ran Blake-Jeanne Lee. Imbucati non invitati, gli Area di “Luglio, agosto, settembre (nero)”, che spuntano fuori alle prime note dell'iniziale "Adwa". Notevole assai.
5. Darius Jones, Legend of e'Boi (The Hypervigilant Eye) (Aum Fidelity)
A proposito di mazzate, anche con Darius Jones e il suo acidissimo contralto c'è poco da fare le anime candide. Tirato a bordo Chris Lightcap al contrabbasso e confermato Gerald Cleaver alla batteria, il sassofonista americano ci regala quello che ha il piglio giusto per essere il suo migliore disco in assoluto, registrato con quella che è di sicuro la sua migliore band. Esagero? Fatevi un giro dalle parti di “Affirmation Needed” o di “We Outside”: urgenza e intensità che sono come sale sulle ferite del jazz troppo addomesticato e precisino che piace alla gente che piace. Nessuna controindicazione.
6. Jeff Parker ETA IVtet, The Way Out of Easy (International Anthem)
Il disco dell'anno o qualcosa del genere. Dopo che già il doppio Mondays at the Enfield Tennis Academy ci aveva fatto capire che Jeff Parker, eroe d'importazione della nuova California dopo l'arrivederci alla sua Chicago, aveva trovato la band perfetta per ragionare a fondo, e con la doverosa ostinazione, sul concetto di beat. Con Jey Bellerose (batteria), Anna Butterss (contrabbasso) e Josh Johnson (sax contralto), le sei corde del nostro si sentono perfettamente a casa, immerse in un flusso di black music da fluttuazione ritmica - austera, serena, minimale - al quale si può solo lasciarsi andare. Chiudete gli occhi che al resto ci pensano loro.
7. Peter Evans, Extra (We Jazz Records)
Di nuovo sulle tracce della finlandese We Jazz per l'ultimo lavoro di quel fenomeno di Peter Evans. Che si affida a Petter Eldh (contrabbasso) e soprattutto a Jim Black (batteria) per dare forma compiuta di disco al suo concetto di trio, modellato attorno a una specie di be-bop ipercinetico e ultramoderno che sa di New York all'ennesima potenza. Tromba, flicorno e pianoforte, otto brani originali, qualche accenno di elettronica, il solito, stupefacente virtuosismo, e anche stavolta c'è parecchio da godere.
8. Tyshawn Sorey Trio, The Susceptible Now (PI Recordings)
La cosa si sta facendo anche un po' imbarazzante, perché ogni anno al momento delle playlist tocca riservare un posto a Tyshawn Sorey. La colpa è sua, però, e non nostra. Colpa sua e del suo trio, che anche stavolta, con Aaron Diehl al piano e Harish Raghavan al contrabbasso, affidano alla PI quattro brani in formato extra large (dai quindici minuti di “Peresina” di McCoy Tyner e “Bealtine” di Brad Mehldau ai venti di “A Chair in the Sky” della Coppia Mingus-Joni Mitchell e ai quasi trenta di “Your Good Lies”) di un'eleganza, di una bellezza impareggiabili. Ci si rivede nella playlist del 2025.
9. Ill Considered, Precipice (New Soil)
Qualcuno ha detto free? Qualcuno ha detto band? Gli Ill Considered sono la scheggia più impazzita della scena londinese fin dal 2017. Per questo nuovo disco, che uscito a marzo è già diventato la quintultima pubblicazione disponibile su Bandcamp (dove si può scaricare tutto a offerta libera), tornano alla forma del trio (Idris Rahman sax tenore, Liran Donin contrabbasso, Emre Ramazanoglu batteria) e all'antico di un jazz fatto di strappi, impennate ayleriane, passaggi in cui la temperatura schizza alle stelle e momenti all'insegna della distensione cosmica. Ad avercene.
10. Mari Kvien Brunvoll & Stein Urheim with Moskus, Barefoot in Bryophyte (Hubro)
Una specie di Hubro All Star Band alle prese con un lavoro collettivo che ha il sapore del manifesto; cinque campioni scelti tra i tanti che nel tempo sono entrati a far parte di uno dei cataloghi discografici più interessanti che ci siano: Mari Kvien Brunvoll, Stein Urheim, Anja Lauvdal, Fredrik Luhr Dietrichson e Hans Hulbækmo. Il jazz c'è ma non si vede. Immaginate i Gong a spasso per le foreste della Norvegia con un codazzo di folletti innamorati della psichedelia, dell'acid folk e del pop a misura di fratelli Grimm. So che non ho reso l'idea, ma se ascoltate poi ci capiamo senza bisogno di spiegarci.