Il paradisiaco Requiem verdiano di Daniel Harding
I complessi di Santa Cecilia, con il loro nuovo Direttore Musicale sul podio, hanno inaugurato il ventitreesimo Festival di Musica e Arte Sacra
Tra una replica e l’altra della Tosca, Daniel Harding ha portato i complessi dell’Accademia di Santa Cecilia in tournée (tecnicamente è infatti una tournée fuori sede, anche se di pochi chilometri) a San Paolo fuori le mura, dove ha diretto la Messa da Requiem di Verdi per l’inaugurazione del ventitreesimo Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra. Già altre volte ci si è lamentati dell’acustica di quest’enorme basilica tardo antica, molto dispersiva e allo stesso tempo con un riverbero lunghissimo, ma si è detto anche che alcune orchestre e direttori sono riusciti a risolvere questo problema, ma nessuno così bene come Harding: forse è semplicemente una fortunata coincidenza se l’acustica si è rivelata ideale per la sua interpretazione del capolavoro di Verdi nell’ambito della musica sacra, mentre è più difficile che abbia voluto e potuto adattare la sua interpretazione all’acustica, perché oltretutto non ne avrebbe avuto il tempo per le poche prove a sua disposizione. Come che sia, il risultato è prodigioso.
Il pianissimo iniziale dei violoncelli è impalpabile ed etereo (tanto che nelle ultime file alcuni non si rendono conto che il concerto è cominciato e continuano a parlottare) e sembra sorgere dal nulla, dal silenzio eterno dell’aldilà. Questo è il caso più estremo della ricerca da parte di Harding di un suono purissimo, trasparente, terso, senza vibrato (se il vibrato c’era, a tale distanza non lo si sentiva): insomma un suono immateriale, disincarnato, spirituale, adatto a questa estrema meditazione sulla fine della vita e sul mistero che sta dopo la vita. Pagine emblematiche di tale interpretazione di Harding sono state “Requiem”, “Recordare”, “Lacrymosa” e “Hostias” ma si potrebbero citare tanti altri momenti più brevi ma non meno suggestivi di un aldilà di pace e beatitudine: d’altronde le prime parole sono “Requiem aeternam dona eis Domine”.
I testi della liturgia dei morti sono prevalentemente vetero e neotestamentari, non toccati dalla concezione medioevale dell’aldilà, dove demoni, fiamme e spaventevoli supplizi attendono i peccatori. Ma ci sono anche alcuni momenti possenti e terrificanti, come il “Dies irae”, su un testo tardo medioevale: a quel punto Harding cambia totalmente registro - come potrebbe essere altrimenti? - e scatena un fortissimo di violenza sovrumana, cosmica. Ma sempre evita gli effetti teatrali, che molti cercano anche qui, convinti che Verdi non potesse uscire dal recinto sia pure vasto delle passioni umane degli eroi dei suoi melodrammi. Con Harding la violenza del “Dier irae” è terribile ma fredda e distaccata, come quella dei mosaici sul giudizio universale nella parete di fondo di molte chiese medioevali (e di cui l’ultimo e più grande esempio è quello di Michelangelo nella Cappella Sistina).
Uscendo si pensava che questo fosse il vero Requiem di Verdi, o più esattamente il Requiem di Verdi più adatto alla sensibilità del nostro tempo. E che fosse anche un Requiem di una bellezza ideale, perfetta: apollineo, si potrebbe dire, se non rischiasse di suonare sacrilego questo richiamo pagano a proposito di una messa cristiana.
Nei pochi giorni passati da quando ha assunto l’incarico di Direttore Musicale, Harding ha raggiunto con i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia un affiatamento totale. L’orchestra l’ha seguito perfettamente dal punto di vista tecnico (nell’eventualità che ci fossero stati minimi difetti, sono stati resi inavvertibili dall’acustica) e anche e soprattutto con sonorità calibratissime, che rivelavano la piena adesione dell’orchestra all’interpretazione del direttore. Quanto al coro, preparato da Andrea Secchi, ha fatto mirabilie: la coesione, l’amalgama, la bellezza e la purezza del suono erano tali da rendere inavvertibili i passaggi dai solisti al coro, se non per un aumento della sonorità.
Anche i solisti erano eccellenti. Avevamo già ascoltato il soprano sudafricano Masabane Cecilia Rangwanasha nel Requiem in occasione d’uno degli ultimi concerti di Pappano come Direttore Musicale a Santa Cecilia e non possiamo far altro che ripetere gli elogi di allora La russa Yulia Matochkina ha voce dal timbro di contralto, bella e ben controllata. Il tenore newyorchese Charles Catronovo, poco conosciuto in Italia ma una celebrità negli Usa e in gran parte del mondo, ha iniziato come molti americani che prendono ad esempio i tenori italiani della vecchia scuola, ma poi si è messo al passo con gli altri e ha contribuito con bel timbro e buona tecnica al bell’esito di questa serata. Roberto Tagliavini è un basso di gran classe, impeccabile.
Le ultime batture, col crescendo mai sentito cosi pieno di controllata tensione e il successivo pianissimo “dum veneris judicare saeculum per ignem”, hanno lasciato il pubblico profondamente toccato e ammutolito: Solo dopo un silenzio di commosso raccoglimento, che sembrava non finire mai, sono scoppiati intensissimi gli applausi.
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