L’anarchia sorridente di The Smile

Secondo album dell’anno per il trio di Thom Yorke e Jonny Greenwood, Cutouts è un inno alla libertà espressiva

The Smile nuovo album 2024
Disco
pop
The Smile
Cutouts
XL
2024

Benché l’alone dei Radiohead rimanga nell’aria, attraverso l’imminente libro fotografico How to Disappear firmato da Jonny Greenwood e l’adattamento di Hail to the Thief che Thom Yorke sta preparando per un prossimo allestimento teatrale dell’Amleto di Shakespeare, attività prevalente dei due è attualmente quella con il batterista Tom Skinner (in passato al fianco di Shabaka nei Sons Of Kemet), a nome The Smile, esperienza avviata in maniera quasi casuale ai tempi del lockdown.

– Leggi anche: The Smile, tra Radiohead e Sons of Kemet

Cutouts è il terzo album targato The Smile in poco più di un paio d’anni, secondo pubblicato nel giro di otto mesi e mezzo, generato dalle medesime sedute di registrazione che avevano fruttato già Wall of Eyes: un grado di parentela simile a quello fra Kid A e Amnesiac, dichiarato nel titolo – “ritagli” – e simboleggiato in gennaio dall’anteprima di un brano allora inedito durante la presentazione del disco precedente. 

– Leggi anche: La prosecuzione dei Radiohead con altri mezzi

Lo ritroviamo qui, settimo in una sequenza di dieci nell’arco di tre quarti d’ora scarsi: “Tiptoe” sembra affiorare dai fumi di un locale notturno, con pianoforte languido e chiacchiericcio di sottofondo, presto sovrastati dagli accenti hollywoodiani della London Contemporary Orchestra, che introducono il canto fragile di Yorke, aperto da una constatazione amara (“Siamo solo bagaglio senza etichetta, ci troverete fra i detriti”). 

Analoga fascinazione acustica esercitano “Instant Psalm”, malinconica ballata increspata dal frinire degli archi, dove “la solitudine è un modo per annegare”, e – in chiusura – “Bodies Laughing”, popolata da “cani che abbaiano, piatti percossi, lingue sferzanti, convulsioni lente”. 

Al contrario, in principio, è un sintetizzatore lamentoso a sostenere l’elegia vocale dedicata a “spie straniere in un mondo meraviglioso ricoperto d’oro”, delle quali è bene tuttavia diffidare, poiché “afferrano coltelli da cucina ogni volta che gli giriamo le spalle”. 

 La quiete di quegli episodi è turbata dalla nevrosi che trapela altrove: una poliritmia incalzante, accoppiata all’ansia überfunk delle trame chitarristiche, rende affannosa l’apprensione da riscaldamento globale espressa in “No Words” (“Arrostisci nel deserto, una terra bruciata”), mentre l’implicita allusione alla bossa nova in “Eyes & Mouth” viene tormentata dalle cadenze ipercinetiche della batteria e dalle arzigogolate geometrie modellate con la chitarra elettrica. 

In quest’ultimo caso si percepisce l’eco degli insegnamenti di Robert Fripp, ancora più nitida nello sviluppo concitato di “Zero Sum”: ritratto della contemporaneità (“La masterclass, il Ted Talk, un sacco di roba da bruciare senza motivo”) articolato sulla stessa lunghezza d’onda dell’“I Zimbra” dei Talking Heads, impreziosita appunto dai fraseggi del regale chitarrista cremisi (giova ricordare, a proposito, che il nome dei Radiohead deriva da una canzone dei “mezzibusti” di David Byrne). 

 Il prontuario musicale del trio è vasto, insomma: ecco, ad esempio, la scala pentatonica su cui s’innalza l’arabeggiante “Colours Fly”, oppure il riff blues accennato al piano in “Don’t Get Me Started” per accompagnare un’arringa difensiva (“Non sono l’assassino, non se ne parla, non sono il cattivo, scegli qualcun altro”).

 All’ascolto, animato com’è da vettori contrastanti, Cutouts potrebbe sembrare incoerente, quando in realtà non fa che rispecchiare lo spirito di avventura dei suoi autori: esentati dallo zelo rigoroso applicato al repertorio della band madre (e personificato in un certo senso da Nigel Godrich, rimpiazzato in produzione da Sam Petts-David per questo parto gemellare), Greenwood e Yorke si abbandonano alla libertà anarchica dell’“interplay” jazzistico, praticato abitualmente da Skinner, e scandagliano così zone inesplorate del proprio estro.

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