iQue viva Manu Chao!

Diciassette anni dopo La Radiolina, Viva Tu segna il ritorno discografico di Manu Chao. Che ci crede ancora

Manu Chao
Disco
world
Manu Chao
Viva Tu
Because Music
2024

«Io conosco l’inferno in terra, io conosco la figlia del mercante, io conosco gli occhi del nulla e io so che fra non molto tornerà la guerra, io conosco il bordo del mare, io conosco occhi davvero inquietanti, io conosco il colore del tempo e spero che ci sia ancora tempo». 

Sono passati diciassette anni e José Manuel Arturo Tomás Chao Ortega – per brevità Manu Chao – è qui, nei solchi di un nuovo disco, e ci costringe a chiederci cosa siamo diventati, lui che non ha mai smesso di crederci, con quella faccia da schiaffi e quel sorriso da eterno bambino. 

Lui è sempre uguale ma il mondo con cui era in sintonia ai tempi di Clandestino (1998) è cambiato: è più cattivo, arido, indifferente; se all’epoca parlavamo della situazione inaccettabile dei clandestini, oggi siamo regrediti a uno stadio anteriore, si muore annegati ancora prima di arrivare nella grande Babylon e diventare clandestini, fantasmas en la ciudad.

 – Leggi anche: Come suona Clandestino di Manu Chao vent'anni dopo?

Diciassette anni, dicevamo, quasi una generazione, e questa occasione ha venature malinconiche e agrodolci. 

Manu Chao è sempre stato un artista prolifico e un attivista con una grande fiducia nel potere della musica come forza positiva. Ma cos’ha fatto in tutti questi anni? Fondamentalmente ciò che gli riesce meglio, ovvero sparire nel mondo (ma non dal mondo) – non completamente assente dalle luci della ribalta, ha continuato a fare concerti, ma c’è sempre voluto un minimo di sforzo per trovarlo. La sua presenza si esprimeva sulla scena, nei bar dei barrios di Barcellona – città dove si è installato a partire dagli anni Novanta –, nelle sale a misura d’uomo e nei festival atipici in giro per il mondo. 

In maniera più o meno regolare il globetrotter franco-spagnolo spediva delle cartoline musicali, messe insieme artigianalmente in casa o registrate dal vivo e pubblicate in rete per essere scaricate gratuitamente, prima ancora che i Radiohead ci proponessero di pagare secondo le nostre possibilità per In Rainbows

 Ha collaborato anche con artisti incontrati lungo il suo peregrinare – Calypso Rose, Bomba Estereo, Amadou et Mariam, Klelia Renesi (nel progetto TI.PO.TA), Sofia Kourtesis… –, lasciando la sua impronta, riconoscibile tra tutte le altre.


 

 Detto questo, Manu Chao ha continuato a essere molto popolare: è adorato in tutta l’America Latina, le sue canzoni risuonano nell’Africa occidentale e quando si esibisce in Europa il sold out è garantito (cosa puntualmente successa nelle sette date del suo ultimo tour italiano lo scorso agosto). 

Prima della data di Paestum ha pensato bene di esibirsi di fronte alle bufale: fortunato chi ha potuto gustare le mozzarelle fatte con quel latte.

 Però bisogna mettere in conto che Viva Tu non avrà lo stesso impatto di Clandestino e Próxima Estación: Esperanza. Sembra difficile un dialogo con la Generazione Z e allora Manu Chao si rivolge a quelli con cui ha condiviso un pezzo di cammino, un’utopia: lui però continua a sognare mentre molti di noi non riescono neanche più a prendere sonno, figuriamoci sognare.

Manu Chao si rivolge a quelli con cui ha condiviso un pezzo di cammino, un’utopia: lui però continua a sognare mentre molti di noi non riescono neanche più a prendere sonno, figuriamoci sognare.

Questo disco non è una rivoluzione ma una successione di ricongiungimenti che ci trasmettono conforto, tredici nuove canzoni dalle atmosfere familiari, fedeli all’etica e all’estetica del troubadour altermondialista che abbiamo imparato a conoscere e amare, metà Bob Marley e metà Joe Strummer: come ebbe modo di dire la giornalista nonché storica musicale Vivien Goldman, lui incarna lo spirito inclusivo del punk.

«Hey, Bobby Marley, sing something good to me, yeah, this world go crazy, it's an emergency, woah» - Mr. Bobby

E allora ecco quel suono groovy, lo-fi, folk-pop, con lo stesso profilo basso ma contagioso. A ben pensarci il singolo principale, “São Paulo Motoboy”, un tributo ai più di trecentomila rider senza i quali la più popolosa città brasiliana sarebbe paralizzata, assomiglia a un sequel di “Bongo Bong”. 

E anche qui un messaggio inequivocabile: sul borsone della rider del video compare la scritta “trasportando l’ingiustizia sulle nostre spalle”. La leggera electronica della canzone riecheggia le sirene delle ambulanze, i bip degli attraversamenti pedonali e gli altri suoni che un motociclista può sentire, mentre lo stile vocale di Manu Chao, vicino al rap, ha un chiaro senso di urgenza. 

È un sentimento che si può estendere ad altre parti del mondo: durante i giorni più cupi del lockdown dovuto alla pandemia, spesso i rider sono stati le uniche persone a essere visibili dalle nostre finestre. Questa canzone vuole essere un’ode appropriata alla loro attività febbrile che, non dimentichiamolo, in molti casi ha permesso alle persone più fragili di potersi nutrire o ricevere farmaci indispensabili.

Lo stesso Manu, in passato, ha lavorato come corriere a Parigi e la sua attrazione per questi lavoratori l’ha spinto a realizzare un documentario di venti minuti su questo soggetto: «São Paulo è una bestia che respira – dice nel comunicato stampa -, e i corrieri sono il sangue che scorre nelle sue vene, tenendola in vita».

Ci aveva pensato la canzone d’apertura, “Vecinos en el Mar”, un’ipnotica folksong decorata con suoni sintetici, a stabilire il tono: il disco parla del nostro mondo com’è oggi. «Vecino ahí en el mar buscando tu camino [Tu mio vicino nel mare cercando il tuo cammino]», canta con tenerezza Manu Chao, accompagnato dalla chitarra acustica di Lucky Salvadori, ricordando le decine, se non centinaia, di migliaia di persone che intraprendono il rischioso viaggio per attraversare il Mediterraneo in cerca di un futuro migliore.

L’intero album è una delizia, un volo in compagnia di chitarre flamenco, fischi, tastiere a buon mercato, bonghi, e lo spirito caratteristico di Manu Chao, sia che canti in portoghese, francese, inglese o spagnolo, o che duetti con Willie Nelson in “Heaven’s Bad Day”, la classica canzone che Strummer avrebbe cantato volentieri davanti a un falò su una delle collinette di Glastonbury. 

E questo non è l’unico duetto del disco, infatti ce n’è un secondo in compagnia della rappeuse Laeti, “Tu te vas”, l’episodio più marcatamente pop di Viva Tu, quello con le maggiori potenzialità commerciali, una sorta di continuazione di “Je ne t’aime plus”.

«Il fumo mi calma appena / Non tornerò mai più / Dappertutto vedo il tuo sorriso / Non tornerò mai più / Devo esaudire i miei sogni / Non tornerò mai più / Canto la mia pena e dimentico che non tornerò mai più» - "Tu te vas"

Viva Tu riallaccia il discorso tra Manu Chao e il suo pubblico, apparentemente interrotto diciassette anni fa ma, come abbiamo visto, solo discograficamente parlando. Alcune canzoni hanno toni e argomenti cupi ma la speranza e la gioia sopravvivono; il messaggio è sempre quello, non è cambiato: insieme, viviamo. Manu Chao è ancora motivato, è ancora creativo, è ancora un uomo della gente e tra la gente: possiamo dire altrettanto di noi? 

 

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