Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, onnipotenza dadaista
Ventre Unique è il nuovo album dell’esuberante collettivo ginevrino
Ci eravamo interrogati già su che musica faccia l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, ricavandone una risposta interlocutoria.
Gli interessati la situano a un crocevia in cui convergono “folk, krautrock, post punk e ritmi africani”, presentando Ventre Unique: sesto album realizzato dal collettivo ginevrino, creato nel 2006 dal contrabbassista Vincent Bertholet con una denominazione riferita tanto alle big band africane, delle quali era appellativo tipico la locuzione tout puissant (onnipotente), quanto al dadaismo, personificato dal genio del ready-made.
La reputazione dell’ensemble, la cui geometria variabile si è assestata ultimamente in un organico di 12 elementi, si deve anzitutto all’empatica verve delle performance dal vivo, dove si apprezza il gioco di squadra che avvera le convinzione espressa dal fondatore: “Siamo una forza collettiva, gli individui non contano”.
In un certo senso, agire in sala di registrazione – compito svolto nella circostanza in uno studio nei dintorni di Parigi nell’arco di una decina di giorni – è più complesso, dovendo disciplinare la spontanea esuberanza della formazione, che a tratti trova comunque sfogo: si ascolti ad esempio il crescendo epico e caotico nel quale sfocia l’irrequietezza ritmica di “Breath”, oppure l’anarchica eruzione sonora in apertura di “Petit Bouts”.
È viceversa un esercizio di sottigliezza “Les Boeufs”, scandito da un ritmo afro destrutturato e decorato dai fregi atonali dei fiati, mentre la voce recitante di Liz Moscarola dice: “Così un giorno torneremo nei campi, ci getteranno dentro, i nostri corpi saranno tombe e poi la terra si rivolterà, arriveranno i buoi, pascoleranno, finiranno il lavoro e poi le cose potranno andare avanti come dovrebbero, in tutta semplicità”.
Sul piano narrativo, alternando inglese e francese, talvolta nello stesso brano (quello appena citato e “Speak by the E”), e sconfinando addirittura verso il lèttone (nel seducente epilogo “Smiling Like a Flower”) in un raptus cosmopolita, l’Orchestra dà l’impressione di perseguire una visione olistica dell’ambientalismo.
Ecco allora il racconto per immagini affidato a “Dehors”, tra riff zigzaganti degni di Bernard Herrmann e montagne russe in stile “no wave”: “I gatti, i cani, i banchi di pesce”, opposti a “I bruciati vivi, i razzi, gli aerei”, fino all’esortazione finale di stampo surrealista, “Aprite le finestre, fate uscire i maiali!”. Al cuore del disco sta tuttavia “Coagule”, alludendo all’“unico grembo” che gli dà titolo, equiparato a un “sogno comune”, dopo il desolato incipit snocciolato con nonchalance su un elastico groove funk: “È una forma di tristezza senza precedenti, l’estinzione della specie”.
Suona al contrario ironicamente rassicurante (“Dicono che tutto si sistemerà, promesse e prodezze nell’aria”) “Ils Disent”, animato da volteggi di trombone, funambolismi di marimba e arabeschi di chitarra, quando a rappresentare gli impulsi nevrotici provvede invece in termini cromatici – con vaga eco di Talking Heads – “Color”: “Hai il volto giusto, il sesso giusto, il colore della pelle giusto, fammi vedere tutti i tuoi soldi e ti dirò di che colore è il semaforo”.
In qualsiasi modo la si voglia chiamare, insomma, la musica dell’Orchestra svizzera funziona bene, riuscendo a conciliare ambizioni formali e trasporto emotivo.