Niente fate, siamo umani

The Fairy Queen di Purcell con Les Arts Florissants approda alla Scala

William Christie (Foto Brescia e Amisano)
William Christie (Foto Brescia e Amisano)
Recensione
classica
Teatro alla Scala, Milano
The Fairy Queen
30 Giugno 2024

Sembra riduttivo parlare di semi-opera per The Fairy Queen (1692), tanta è la varietà, tanta la ricchezza delle musiche inserite nel dramma, il cui testo si basa sul Sogno di una notte di mezza estate shakespeariano. I masque danzati e cantati che chiudono gli atti offrono un florilegio di forme e stili che raggiunge le tre ore di durata, per cui la rappresentazione integrale è sempre un problema. Lo spettacolo, in tournée da quasi un anno, consiste dunque nell’esecuzione della sola parte musicale, scorciata di un terzo, in forma semi-scenica. Anche questa è una definizione riduttiva, perché la regia e coreografia sono di Mourad Merzouki, da trent’anni esploratore della danza hip-hop, che ha portato sulle scene con la compagnia Käfig (la gabbia). Della partitura di Henry Purcell offre una lettura visiva, in cui i movimenti acrobatici dei sei danzatori si intrecciano a gesti, passi di danza ed espressioni degli otto cantanti, a formare una specie di coro greco che si muove all’unisono; pertanto anche i danzatori cantano insieme agli altri nel propiziatorio coro finale. Del soprannaturale di Shakespeare non rimane nulla: niente elfi e fate, cantanti e ballerini vestiti con camice e giacche moderne. Sono un gruppo di ragazzi e ragazze che si allontanano dalla città, si stupiscono per il sorgere del sole, il canto degli uccelli, l’arrivo della notte e il passare delle stagioni. Quel che è soprannaturale e magico, allora, è il meraviglioso tempo della giovinezza, con i corteggiamenti, la difficoltà di fidarsi reciprocamente, i primi abbandoni. Lo stupore che si sprigiona, l’incanto dello spettacolo, deriva dal fatto che volteggi, piroette di sbieco e salti mortali si sposano così bene con la musica: prendono vita da ogni respiro, soffio e vocalizzo. Non sono mero commento, la compenetrazione è pressoché assoluta, rari i momenti in cui si vorrebbe togliere qualcosa. Anche in quelli più sovraccarichi di salti e di gesti, la compagnia respira insieme al direttore e ai musicisti; sarà proprio questo il succo dello spettacolo: la vita ha senso solo se si vive insieme, creando un’armonia che di continuo si spezza e si ricrea. Non c’è più bisogno di elfi, fate, divinità; non c’è magia se non nell’empatia reciproca e nella vita stessa.

William Christie, sornione e divertito, sposa convinto tale visione, dirigendo con pochi gesti sobri e sicuri una partitura amata e conosciuta a fondo almeno da quando la riportò in scena ad Aix en Provence nel 1989. I suoi musicisti, Les Arts Florissants, talvolta raggiungono il palco e la loro misurata gestualità diventa anch’essa una danza, che ci fa staccare da terra e piroettare insieme agli elastici danzatori, che sono Baptiste Coppin, Samuel Florimond, Anahi Passi, Alary-Youra Ravin, Daniel Saad, Timothée Zig. Cantanti altrettanto giovani e pieni di grazia, capaci di sfumare e cantare piano, perfettamente omogenei se fanno il coro: Paulina Francisco, Georgia Burashko, Rebecca Leggett, Juliette Mey, Ilja Aksionov, Rodrigo Carreto, Hugo Herman-Wilson, Benjamin Schilperoort.

Teatro gremito e in visibilio per l’unica data italiana della tournée, profluvio di bis durante i quali anche Christie si mette a cantare ed accenna a qualche passo di danza.

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