Tristan e il teatro nel teatro

A Palermo, il congedo scenico da Isolde di Nina Stemme

Tristan und Isolde (Foto Rosellina Garbo)
Tristan und Isolde (Foto Rosellina Garbo)
Recensione
classica
Palermo, Teatro Massimo
Tristan und Isolde
19 Maggio 2024 - 31 Maggio 2024

Il nuovo allestimento palermitano di Tristan und Isolde ha segnato l’ultima apparizione in scena – in concerto ci saranno ancora alcune occasioni – di Nina Stemme quale Isolde: una circostanza opportunamente segnalata e festeggiata dal Teatro Massimo, che al termine ha omaggiato un’interprete di superiori maturità e profondità nel ruolo. I mezzi vocali della Stemme sono tuttora ragguardevoli e sicuri in quasi tutti i registri, forse abbisognano di un po’ di gradualità espansiva nell’attivazione di alcuni acuti, ma la cantante non si è certo tirata indietro, seguendo fedelmente – e in questo si riconosce la flessibilità della musicista – gli input della direzione di Omer Meir Wellber: asciutta, orientata in avanti, generosa nei contrasti dinamici, quasi ‘melodrammatica’, pochi o nulli i ‘cedendo’, col risultato di uno sbalzo drammatico efficace – paradossalmente – meno nel primo atto (ottima comunque la stretta finale) che nei due seguenti. Se non era la sua ultima apparizione, la Brangäne di Violeta Urmana ha mostrato doti di padronanza e d’intelligenza interpretative, forgiate con esperienza e capacità, analoghe alla collega. Quanto alle voci maschili, Michael Weinius canta bene nel terzo atto, ma ha arrancato talvolta nelle emissioni di un ruolo assai impegnativo, nel quale sarebbe interessante riascoltarlo; bravissimi, per solidità vocale e disegno tanto del fraseggio quanto della presenza scenica, gli altri esecutori scenici principali della serata (il Kurwenal di Andrei Bondarenko, il Marke di Maxim Kuzmin-Karavaev, il Melot di Miljenko Turk). Un plauso speciale all’ottima prima parte di corno inglese, sul palco nel terzo atto, entro una prova, di Orchestra e Coro del Teatro Massimo, reattiva alla direzione.

Quanto alla regia curata da Daniele Menghini, molti i piani sui quali si sono accavallati i segni teatrali. Quello della permeazione tra esibizione dell’artificio rappresentativo e sua piena realtà fittizia (i personaggi sono anche visibilmente interpreti, entrano dalla sala come in prova e si vestono a vista, condividono uno spazio in continuo montaggio tecnico accanto a maestranze varie…) sviluppa le soluzioni migliori a inizio spettacolo e nel terzo atto: un inserviente scenico ad agevolare il rito dell’ingresso in buca del maestro, quale indice d’indissolubilità wagneriana tra scena e orchestra; gesti allusivi nelle ‘presentazioni’ tra gli interpreti ovvero personaggi; la sostituzione del corpo con l’abito smesso, quindi il riaccendersi graduale e trasfigurante delle luci di sala sul sublime ‘Mild und leise’; peccato che regista e direttore non siano riusciti a ben sincronizzare l’azione finale, che avrebbe visto Isolde riattraversare in uscita la sala, purché luci e musica non si fossero spente con l’interprete ancora a inizio corridoio centrale. Gli altri segni si accumulano in citazioni shakespeariane da Amleto e – soprattutto – Romeo e Giulietta, forse a suggerire il tema del conflitto tra la ragione inibente dei comportamenti politico-familiari e la potenza irrazionale d’amore (sembra infilarsi pure, attraverso i costumi, un riferimento non ingiustificato al triangolo Don Carlo-Elisabetta-Re Filippo), e nell’apparizione ricorrente di un angelo poco benaugurante, testimone quanto vittima. Gli applausi alla fine sono stati generosi per tutti, con particolare e doveroso entusiasmo per la Stemme.

 

 

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