Il disco americano dei King Hannah
Big Swimmer, il secondo album del duo di Liverpool King Hannah, è stato concepito in tournée oltreoceano
Dopo aver pubblicato due anni fa l’album di debutto I’m Not Sorry, I Was Just Being Me i King Hannah si sono avventurati in tournée, arrivando pure in Italia la scorsa estate. Ed è appunto girando il mondo che ha preso forma il disco nuovo, Big Swimmer:
«Visitare un paese straniero è come assistere alla vita di qualcun altro», hanno commentato. A influenzarlo, in particolare, è stato il tragitto compiuto oltreoceano: lo testimoniano in maniera eloquente i titoli di un paio di brani, “New York, Let’s Do Nothing”, dove l’esposizione di Hannah Merrick ricorda lo sprechgesang di Florence Shaw nei Dry Cleaning (“Ero a un colloquio di lavoro, ricordo di aver mentito su ciò che sapevo, lui disse: ‘Mi dica qualcosa di lei, allora’. Risposi: ‘Beh, sono cantante e anche musicista’. E lui: ‘Oh no, ancora un altro!’”), e “Somewhere Near El Paso”, con una narrazione on the road sorretta dalla trama minimalista tessuta alla chitarra da Craig Whittle (“Stavamo guidando sull’autostrada vicino a El Paso e ci siamo fermati a una stazione di servizio, due ragazzi avevano appena vinto quaranta dollari con un gratta e vinci, facevano il pieno di benzina, io li osservavo, dicevano che quella sera sarebbero andati al bordello”).
Merrick e Whittle costituiscono la coppia motrice della band di Liverpool – dal vivo un quartetto con Conor O’Shea al basso e Jake Lipiec alla batteria – e ne indirizzano il cammino musicale assecondando ascendenze che non esitano a indicare esplicitamente: “Mi piace ascoltare Bill Callahan, mi riscalda il cuore più di tutte le altre persone che conosco e non conosco”, recita ad esempio il testo di “Suddenly, Your Hand”, ballata dall’andamento sereno finché i tormenti chitarristici ne deviano il corso in senso melodrammatico, mentre in chiusura troviamo un quadretto di quiete domestica dedicato a un altro cantautore di culto (“C'è spazio in cucina, se vuoi unirti a me, sto preparando qualcosa, ascolto John Prine alla radio e mi sento bene”) e in “Lily Pad” – costruito appropriatamente in chiave “post rock” – Hannah confessa di sentirsi “come se fossi sulla copertina di quell’album degli Slint con sopra tutti e quattro semplicemente a mollo”.
L’allusione all’ambientazione amniotica di Spiderland è rafforzata dal ritratto della “grande nuotatrice” menzionata nell’intestazione, che corrisponde all’episodio introduttivo: folk song fluviale (“Quando il fiume scorre e la foce arriva alla fine, continui a nuotare o salti fuori e afferri l’asciugamano?”) onorata dalla presenza di Sharon Van Etten.
L’affermata cantautrice statunitense bissa il cammeo in “This Wasn’t Intentional”, mantra di scuola slowcore a detta degli autori ispirato all’atmosfera narcotica di Aftersun, straordinario lungometraggio d’esordio di Charlotte Wells.
A proposito di riferimenti cinematografici, eccone uno per Dallas Buyers Club nell’istantanea di viaggio immortalata in “Milk Boy (I Love You)”: “Poi arrivò un furgone e ne saltarono fuori due uomini, mi ricordavano McConaughey in quel film sull’Aids non abbastanza premiato, alti, magri, con i blue jeans sbiaditi e un paio di baffi cattivi, un po’ gialli e arancioni”.
Fra una citazione e l’altra, il duo finisce per descrivere così il proprio habitat culturale, popolato da figure e opere apprezzabili: il risultato non sarà forse originalissimo, ma funziona. Lo dimostra “Davey Says”, numero d’indie rock americano modello Generazione X dallo svolgimento quasi scolastico e tuttavia efficace.
Alberto Campo