In ordine sparso al Cully Jazz Festival
Usato sicuro e un tocco british per il quarantunesimo Cully Jazz
A differenza dello scorso anno, quando l’Africa e i suoi derivati avevano tenuto in pugno con fare deciso il Cully Jazz, il quarantunesimo anniversario del festival più felicemente avvinazzato d’Europa ha proposto un cartellone meno rivolto verso l’esotico e le novità, dal sapore un poco attendista e con in testa la missione di mantenere le posizioni acquisite.
Il leggero calo nella vendita dei biglietti – a fronte di un aumento delle presenze (70 mila visitatori) registrato nelle stradine della località affacciata sul lago Lemano – e una certa reticenza del comunicato stampa finale sul bilancio finanziario, sono le prove tangibili che le rassegne dai budget milionari stanno vivendo un’indubbia fase di transizione.
Per il futuro, se si intende restare legati alla categoria “jazz” (per quanto ampia, inclusiva o corrotta essa sia) e non arrendersi al rock e quant’altro (si veda Montreux oppure Umbria Jazz), servirà escogitare nuove idee per dare vita a una programmazione capace di coniugare qualità artistica e successo al botteghino (detto sottovoce e tra noi: pare un’impresa dai toni epici).
Lasciando da parte la matematica e la filosofia e augurando il meglio agli organizzatori del Cully Jazz, dobbiamo ammettere di essere stati piacevolmente sorpresi dal quartetto del trombettista Avishai Cohen, autore di una prova gagliarda, in chiaroscuro, a momenti trattenuta e ponderata e in altri vigorosa, dura. Lui e Barak Mori (contrabbasso), Yonathan Avishai (pianoforte) e Ziv Ravitz (batteria), ospitati nel main stage del Chapiteau, hanno aperto con “Will I Die, Miss? Will I Die?” (da Cross My Palm With Silver, 2017), pensato in origine a ricordo di un bambino siriano vittima di un attacco chimico, un tema legato a linee ritmiche mai statiche, disturbate da continui cambi di tempo, accentuati dall’esecuzione live.
L’evocazione di immagini di guerra torna nella presentazione dei brani successivi e centra senza tanti giri di parole il conflitto israelo-palestinese. Cohen se la prende con Netanyahu, spera se ne torni presto a casa, anzi, che finisca in galera, pur ammettendo la difficoltà di prendere posizione, perché non si sa da che parte stare.
“Ashes To Gold”, questo il probabile titolo, è una suite dai contenuti assai articolati che vedrà la luce nel prossimo e imminente disco dell’artista. Cohen impiega persino il flauto, ad aprire e chiudere una composizione entro cui fluttuano passaggi d’insieme coinvolgenti e spunti solistici ben calibrati, il tutto frutto di un tormento interiore evidente e per questo sincero per come si costruisce.
Il resto del set scorre meno problematico, tra una placida melodia rubato alla figlia (“dovete domandare a lei per il titolo”), la ripresa del secondo movimento del Concerto per pianoforte in sol maggiore di Ravel (“è uno dei più bei brani di sempre, l’ho scritto io, cioè no, avrei voluto scriverlo io”), non a caso influenzato da elementi jazz e folk, e un bis richiesto a gran voce dal pubblico.
Una platea che sul prosieguo della serata, quando è venuto il turno dell’evento principale, il Portico Quartet di Duncan Bellamy (batteria, elettronica) e Jack Wyllie (sassofoni, elettronica), presentatisi in compagnia di Milo Fitzpatrick (contrabbasso e basso elettrico) e Taz Modi (tastiere), si è mostrato più diviso nei giudizi.
Benché da seduti, in tanti ritmicamente ciondolavano convinti la testa, ma c’è anche chi dopo una mezz’oretta ha cominciato ad alzarsi e a sgattaiolare fuori, specie tra le prime file. Da quasi vent’anni sulle scene, la band ha indubbiamente anticipato i tempi di certe mescolanze londinesi nu-jazz che oggi sono date per acquisite e vincenti, anche in forza di un suono collettivo d’impatto e stordente.
Sommandosi, i loro brani finiscono però per girare un po’ troppo in tondo sul medesimo perno, la vena minimalista scorre senza provocanti variazioni e l’elettronica a un certo punto attua incursioni prossime alla dance che danno l’impressione di coprire un po’ di vuoto creativo.
Qualche giorno dopo siamo tornati sotto il tendone principale per rivedere con piacere un eroe di gioventù, quel Dave Holland protagonista in tante e mirabili prove di creative music dei Settanta. Il contrabbassista inglese porta assai bene la sua età e i sessant’anni di carriera sono per lui un peso relativo. Pur dovendosi reinventare il suo trio in seguito all’assenza di Kevin Eubanks, ha pescato molto bene nel mazzo reclutando l’altosassofonista Jaleel Shaw, un nome poco considerato del quale varrebbe invece la pena riascoltare qualche passata incisione (ad esempio Perspective oppure il più recente Echoes).
Per ripagarsi del prezzo del biglietto la presenza di Eric Harland sarebbe comunque stata sufficiente, trattandosi di un batterista che dal vivo si è riconfermato un collante efficace e un sensazionale esempio di poliritmia, senza mai ricorrere a modalità tonitruanti. Non riusciamo a immaginare che cosa potrebbe combinare se invece degli ordinari quattro arti ne avesse sei o otto. Lungo un’ora e mezza filata, quasi priva di pause, i tre hanno proposto temi di loro creazione e sconfinato di continuo da un robusto e inventivo post-bop verso dimensioni più libere, ai confini del free.
In apertura di serata l’HEMU Jazz Orchestra, big band formatasi all’interno della prestigiosa Haute Ecole de Musique di Losanna, aveva presentato il programma “Ghana Highlife”, frutto di alcuni soggiorni-studio nel paese africano. Accresciuta da esperti strumentisti quali Thomas Dobler (vibrafono) ed Etienne Mbappé (basso) la formazione si è mossa piuttosto agilmente lungo una scaletta di classici highlife revisionata e arrangiata in chiave jazz. Il punto debole sono state quasi tutte le parti solistiche, troppo scolastiche e anonime, tendenti a indebolirsi poco dopo l’avvio (insomma ragazzi, c’è ancora tanto da sudare per diventare musicisti, non mollate).
A chiudere il festival hanno provveduto altri londinesi un po’ particolari. Per primo è stato il turno del Balimaya Project, già protagonista su queste scene due anni addietro. Da allora il tempo non è passato invano e il leader Yahael Camara Onono (djembe) guida oggi un ensemble di una dozzina di elementi che bene veicola la connessione tra sonorità westafricane e influssi urbani jazz, caraibici e funk, come l’album When The Dust Settles del 2023 aveva evidenziato.
Si avverte un forte senso comunitario del fare musica, espresso da percussioni e fiati intrecciati fra loro con una certa maestria, oltre ai ghirigori regalati da chitarra e kora. Ne risultano flussi sonori trascinanti, con il merito di possedere una leggerezza inusuale. L’unico dubbio, almeno dal vivo, riguarda taluni momenti solistici troppo insistiti, che in qualche misura cozzano con i principi collettivisti che si è data l’orchestra e ne smorzano a tratti l’efficacia.
A seguire, la performance di Nubya Garcia è parsa inizialmente piuttosto ingessata, benché il repertorio fosse rodato da tempo, a considerare che è dal debutto di Source (2020) che si attendono novità discografiche dalla sassofonista. Anche i suoi collaboratori sono i medesimi di sempre, dal tastierista Joe Armon-Jones a Daniel Casimir (contrabbasso) e Sam Jones (batteria), e proprio grazie al primo, piacevolmente imprevedibile e scapigliato in taluni momenti, il concerto a un certo punto ha cominciato a prendere il volo e la stessa Garcia ha immesso più intensità nel suo strumento, lasciando meno spazio all’improvvisazione danceable, tinta di dub e beat spezzati, che non è certo la sua unica cifra stilistica.
Eccola così lanciarsi in fraseggi dal moto in crescendo, in grado di scuotere infine la platea come si conviene. Il guardare indietro alla ricerca delle proprie radici (caraibiche), l’ha senz’altro aiutata a trovare una propria precisa identità. Adesso si tratterebbe di proiettarsi in avanti con maggiore slancio rispetto a quanto fatto sinora, di ambire a ulteriori scoperte, perché il live di Cully ha fatto intuire che Nubya dispone di potenzialità ancora inespresse, da liberare magari tagliando quei vincoli che la avviluppano alle mode del momento.
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