In volo con i Khruangbin

A la Sala è il nuovo album del trio “globalista” texano Khruangbin

Kruangbin
Disco
world
Khruangbin
A la Sala
Dead Oceans
2024

A prima vista, il culto dei Khruangbin è di ardua interpretazione: producono in genere musica non verbale (faceva eccezione l’album precedente, Mordechai, mentre questo nuovo si riallinea alle consuetudini) e sembrano del tutto fuori sincrono con ciò che accade intorno.

– Leggi anche: Khruangbin e la musica del mondo

Eppure totalizzano quantità ragguardevoli di streaming su Spotify e hanno estimatori d’alto rango, tipo Paul McCartney o David Byrne (Dj in apertura di un loro showcase la settimana scorsa al Bowery Ballroom di New York).

E dunque? Forse dipende proprio dal collocarsi “altrove”, sia in senso cronologico (si tratta di materiale che potrebbe appartenere indifferentemente agli anni Sessanta o a un modernariato prossimo venturo) sia in termini geografici. Quest’ultimo è un aspetto meritevole di approfondimento.

Il nome astruso, ad esempio, corrisponde a un vocabolo che in Thailandia significa “aeroplano”: indizio della fascinazione per l’Oriente della statuaria bassista Laura Lee Ochoa, principale forza motrice del gruppo, la cui attitudine “globalista” era espressa in maniera nitida dalla selezione curata nel 2020 per un volume della collana Late Nigh Tales, dove comparivano artisti sudcoreani, bielorussi, pakistani, spagnoli, etiopi e nigeriani.

Indirizzava all’Africa, poi, il lavoro realizzato nel 2022 insieme a Vieux Farka Touré e intestato al padre Ali, monumento musicale del Mali, successivo a un altro in condominio, Texas Sun con il soul singer Leon Bridges.

Ecco, se mettiamo tutti gli ingredienti menzionati nel frullatore e lo azioniamo, il risultato si avvicina al contenuto di A la Sala, intitolato così perché «era quello che da bambina strillavo in casa per riunire tutta la famiglia in soggiorno», spiega Laura Lee, e commercializzato con sette copertine cromaticamente differenti.

Una dozzina di brani in una scarsa quarantina di minuti: il migliore è “May Ninth”, basato sul garbato arpeggio della chitarra di Mark Speer e decorato da melodie vocali impregnate di nostalgia (“Aspettando che venga maggio, sperando nella pioggia”, recita un verso), ottenendo un effetto stile Moon Safari degli Air.

Cammin facendo, s’incontrano echi di ciò che chiamavamo “exotica” (la sinuosa “Ada Jean”, degna di un soft porn d’antan), suggestioni d’ambiente oceanico (“Farolim de Felgueiras” allude a un faro affacciato sull’Atlantico dalla costa portoghese) e ammiccamenti cinematografici (“Juegos y Nubes” farebbe la sua figura nel repertorio dei Calibro 35), quando la citata inclinazione africana affiora negli accenti chitarristici sovrapposti all’ancheggiante groove funk di “Hold Me Up (Thank You)” e nel portamento swingante di “Pon Pón”, punteggiato da una successione surreale di numeri pronunciati in varie lingue.

Il ventaglio delle possibilità è ampio e include addirittura – in chiusura – un valzer “in pelliccia” (“Les Petits Gris”, in francese) scandito da un pianoforte d’ameublement modello Satie, anticipato in sequenza dall’incantevole succo di spleen da giramondo distillato in “A Love International”.

A la Sala esercita insomma un fascino ineffabile e costituisce un ascolto indicato “contro il logorio della vita moderna”, secondo un vecchio adagio pubblicitario. Dopo di che, con pazienza, ci si può apprestare a gustarne la resa dal vivo: accadrà l’11 novembre all’Alcatraz di Milano.

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