Philippe Jordan dirige Mahler e Brahms a Roma
Il direttore svizzero è tornato a Santa Cecilia dopo vari anni, con un bellissimo programma splendidamente diretto
Philippe Jordan aveva diretto due volte l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, nel 2007 e nel 2012, giovane ma già avviato ad una brillante carriera. Ora è tornato, alla soglia dei cinquant’anni, potendo esibire un curriculum di tutto rispetto: è stato il direttore musicale dell’Opéra National de Paris, il direttore principale dei Wiener Symphoniker e dal 2020 è il direttore musicale della Wiener Staatsoper, per non parlare delle sue presenze sul podio di tante importanti orchestre e teatri.
Nel suo concerto romano si è dimostrato fin dall’inizio un direttore di classe, per l’ampiezza, la compostezza e la precisione del gesto, per il controllo delle dinamiche che non indulgono mai a pianissimo e fortissimo eccessivi, e per l’equilibrio e la nobiltà dell’interpretazione. La sua stategia interpretativa è entrare nelle musiche eseguite attraverso un approfondimento graduale, battuta dopo battuta, e non con uno slancio istintivo e passionale: qualcuno avrebbe potuto desiderare - ma è una questione soggettiva - una maggiore immediatezza comunicativa, però questo suo approccio non viscerale ha dato indubbiamente risultati altissimi.
Nell’Adagio - l’unico movimento della Sinfonia n. 10 portato a termine da Gustav Mahler- il tema iniziale delle viole avvia un colloquio dolce e cordiale tra gli strumenti ad arco e i legni. Sotto la bacchetta di Jordan tutto è chiaro e trasparente, cosicché si può apprezzare pienamente la maestria dell’orchestrazione e dell’elaborazione tematica di Mahler. S’intuisce subito che per Jordan questo Adagio non è decadente ed estenuato né presago della morte vicina, come spesso si dice perché è l’ultima musica scritta da Mahler, che la scrisse quando i medici gli avevano detto che il suo cuore non avrebbe continuato a battere molto a lungo. Per Jordan è invece delicato e sereno, ma anche percorso da folate invernali, gelide e cupe, soprattutto per gl’interventi dei tromboni, dei corni e del basso tuba. Quando il movimento si avvicina alla conclusione, quella serenità sempre in equilibrio instabile è travolta e mandata in frantumi da una serie di possenti accordi, che si impongono stridenti e terribili, come una visione mostruosa, un incubo. Ma il tema iniziale riemerge e si afferma, concludendo l’Adagio con sonorità rarefatte e celestiali, in una sorta di sereno pessimismo, se mi è concesso quest’ossimoro. Riassumendo: un’interpretazione che lascia parlare la musica, senza aggiungervi sentimentalismi e sdilinquimenti non richiesti e rivelandone la profonda tragicità.
Seguiva il Deutsches Requiem di Johannes Brahms, composto circa cinquant’anni prima dell’Adagio di Mahler. Non è musica liturgica ma una meditazione sulla morte, basata su testi dell’antico e nuovo testamento, scelti però da un non credente, cosicché il peccato, la dannazione eterna e le altre immagini create per incutere terrore nei fedeli non hanno spazio, a differenza che nei Requiem cattolici. “Coloro che seminano fra le lacrime, raccoglieranno con gioia”: lo spirito di questo Requiem può essere sintetizzato da queste parole della prima delle sue sette parti. Jordan fonde perfettamente - qui e in seguito - intimismo liederistico e grandiosità contrappuntistica. Il fato inesorabile si affaccia all’inizio della seconda parte, “Denn alles Fleisch”, che inizia al ritmo di una marcia funebre ma termina in una serena luce di speranza. Nella terza parte è profonda e dolente la meditazione del baritono, uno straordinario Gerald Finley, seguita da una grandiosa fuga, dipanata da Jordan con chiarezza ed equilibrio meravigliosi. Invece è soltanto bravina e scolastica lasoprano Louise Alder, protagonista della quinta parte. Grande protagonista della settima e ultima parte è il coro, che si slancia in una grandiosa fuga, un chiaro tributo a Bach, che al grande magistero contrappuntistico unisce però la vibrante commozione del romanticismo.
Un lungo silenzio carico di emozione segue l’ultima nota, prima che esplodano gli appalusi di gratitudine, che interpretiamo anche come l’espressione del desiderio di riascoltare presto Jordan, senza dover aspettare di nuovo tanti anni. Applausi che naturalmente erano rivolti anche ai due solisti, all’orchestra apparsa in ottima forma, e soprattutto al coro, magnificamente preparato da Andrea Secchi.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.