La Morte sconfigge l’Imperatore di Atlantide
Rappresentata a Roma dal Reate Festival l’opera scritta da Ullmann nel campo di concentramento nazista di Terezin
Per un paio di mesi il Teatro Palladium, trasformandosi quasi in un secondo teatro d’opera romano, si è dedicato alle opere “da camera”, presentandone quattro, di cui due in prima esecuzione assoluta e una in prima esecuzione a Roma, Der Kaiser von Atlantis di Viktor Ullmann. Non è un’opera del tutto sconosciuta in Italia, dove se ne sono avute diverse edizioni dopo quella del festival di Spoleto nel 1976, appena un anno dopo la prima esecuzione assoluta. Tuttavia non si può fare a meno di rievocare ancora una volta la tremenda situazione in cui Ullmann compose quest’atto unico: era internato nel campo di Terezin, usato dai nazisti come specchietto per le allodole per trarre in inganno gli inviati degli organismi internazionali, che cercavano di controllare – per quel che potevano – il rispetto dei diritti umani nei campi di prigionia. Per questo motivo le condizioni di vita a Terezin erano relativamente migliori che negli altri campi, quindi Ullmann riuscì in qualche modo a comporre questa sua opera, che fu anche provata, ma non rappresentata, poiché fu bloccata dalla censura, che aveva subodorato nell’imperatore di Atlantide una satira di Hitler. Era il 1943. L’anno successivo il compositore e il librettista Petr Klein furono entrambi trasferiti ad Auschwitz e lì uccisi.
Il soggetto è simgolare e si direbbe che da una parte risenta sia dell’espressionismo che del Kabarett tedesco ma dall’altra anticipi il teatro dell’assurdo, nella versione cupa e pessimistica di Camus, Beckett e Ionescu. Questo è il soggetto, in breve: l’imperatore Overall (evidentemente è la traduzione in inglese del motto nazista “Deutschland über alles”) ha proclamato la guerra e tutti, siano uomini o donne, vecchi o bambini, vi dovranno partecipare fino al completo sterminio del nemico. Ma di fronte a tale orrore la Morte si rifiuta di svolgere il suo compito: nessuno morirà più. Dopo varie peripezie, l’imperatore accetta di morire per primo (questo appare alquanto improbabile), purché la Morte accetti di ricominciare il suo lavoro.
Un soggetto che può far pensare al trionfo della Morte, che negli affreschi medioevali trionfa anche su imperatori e papi, con la differenza che in Der Kaiser von Atlantis la Morte è attesa e invocata dall’umanità intera, perché pone fine alle sofferenze: difficile non vedervi rispecchiata la situazione di chi era rinchiuso in un campo di concentramento.
Nel comporre la musica per questo soggetto, Ullmann fece ricorso a quel che avveniva nel mondo musicale in quegli anni, dunque a Kurt Weill, al blues, al fox-trot, al ragtime ma anche e soprattutto a due grandi compositori del tempo, Hindemith e Berg. In più, per connotare in modo preciso determinate situazioni, inserì citazioni di melodie notissime (almeno in Germania) come l’inno nazionale tedesco e il corale luterano “Ein feste Burg ist unser Gott”. Questa mescolanza di ambiti musicali diversi si riscontra anche nell’ensemble strumentale, formato da strumenti sia classici che popolari, quali chitarra, banjo, sax e harmonium.
Eppure la musica di Ullmann non è affatto un patchwork, perché è sempre in stretto rapporto col testo ed è sempre assolutamente adeguata a questo dramma assurdo ma atroce. Da questo derivano, nonostante gli improvvisi sbalzi stilistici, la sua compattezza e il tono di fondo unitario, prevalentemente cupo, com’era inevitabile. Ma c’è anche un momento lirico, in cui si affacciano sogni e speranze: è il duetto d’amore tra il Soldato e la giovane Bubikopf. Il risultato è un’opera intensa, a tratti sconcertante, forse non molto teatrale e drammatica, ma sicuramente in grado di tenere sulla corda l’ascoltatore per tutta l’ora della sua durata.
Il direttore Sieva Borzak (romano, nonostante il nome d’ascendenza russa) ha saputo dare corpo al complesso discorso musicale di Ullmann, unendo lucidità analitica e forza espressiva. E, nonostante lui e l’ensemble strumentale fossero collocati un po’ scomodamente in un angolo della platea, ha mantenuto sempre un ottimo controllo sia della valida Roma Tre Orchestra sia del gruppo dei giovani cantanti, tutti provenienti dal Progetto “Fabbrica” dell’Opera di Roma e tutti bravissimi a immergersi in una scrittura vocale accidentata, senza far percepire la fatica, e a dare una ben rilevata caratterizzazione ai rispettivi personaggi. Carlo Feola e Mattia Rossi interpretavano i ruoli della Morte e dell’Imperatore, che si potrebbero definire i protagonisti, poiché è intorno a loro che ruota la vicenda. Ma anche gli altri personaggi hanno parti egualmente importanti e complesse: li hanno interpretati ammirevolmente da Spartak Sharikadze, Nicola Straniero, Eduardo Niave, Mariam Suleiman ed Ekaterina Buachidze.
Un punto di forza dello spettacolo era la regia di Cesare Scarton, che ha colto perfettamente il nucleo drammatico dell’assurda vicenda, tenendosi sempre abilmente in equilibrio tra realtà e assurdo. Le scene di Michele Della Cioppa, consistenti in un assemblaggio di ruote dentate, pale rotanti, scale e scalette metalliche, rappresentavano un folle stabilimento industriale, che chiaramente rappresentava a sua volta il folle ma purtroppo reale mondo in cui l’opera si svolge. Essenziali anche i contributi di Anna Biagiotti (costumi), Flaviano Pizzardi (motion graphics) e Andrea Tocchio (luci).
Le due rappresentazioni romane - di cui una riservata alle scuole - si sono svolte a teatro pieno e sono state accolte da convinti applausi. Poi Der Kaiser von Atlantis è stato replicato dal Reate Festival anche a Rieti nell’Auditorium di Santa Scolastica, poiché il Teatro Flavio Vespasiano è attualmente chiuso per lavori.
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