Tutto funziona in casa Wilco
Credevate che i Wilco non avessero più qualcosa di nuovo da dire? Poveri stolti: vi sbagliavate di grosso
C'è un che di prodigioso, e di obiettivamente unico, nel modo in cui il miracolo Wilco si ripete da quasi trent'anni.
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Con l'uscita di Cousin, pubblicato in house dell'autogestita dBpm, sale a tredici il numero degli album in studio, ai quali vanno aggiunti progetti estemporanei e paralleli, collaborazioni, live, singoli e migliaia di concerti in tutto il mondo.
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Sono pochi i paragoni possibili e plausibili. Certo, le band a lunga o addirittura a lunghissima scadenza non sono una rarità (a maggior ragione in tempi di nostalgia sonante), ma un conto è stare in piedi, magari anche più che dignitosamente, tirare avanti tra alti e bassi, staccando e riattaccando la spina con alterne fortune, un altro è vivere in un eterno presente come i sei di Chicago. E non è certo una questione di numeri (per quanto anche i numeri dicano la loro), ma di qualità, di sostanza, di capacità di continuare a lavorare, giorno dopo giorno, produzione dopo produzione, sul delicato ma vitale equilibrio tra cambiamento e riconoscibilità, tra identità ed evoluzione.
Tutto funziona in casa Wilco. Jeff Tweedy è uno dei migliori songwriter della generazione Novanta, quella schiacciata tra il mito dei padri e l'era della musica liquida. Anima e custode dello spirito di una band ancorata al basso di John Stirratt – l'unico, oltre a Tweedy, in sella dalla primissima ora – e che può contare sulla stessa line-up dal 2004; line-up della quale fanno parte, con Mikael Jorgensen e Pat Sansone, due musicisti totali come il batterista Glenn Kotche e il chitarrista Nels Cline (l'ingresso di quest'ultimo subito dopo A Ghost Is Born, in particolare, ha allargato a dismisura il potenziale sonoro e il tasso di imprevedibilità del gruppo, garantendo la continuità necessaria nella spinta verso il rischio dopo l'esperienza in studio con Jim O'Rourke).
Chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo (sono passati anche di recente dalle nostre parti), sa di cosa sto parlando: non ci sono davvero paragoni possibili e plausibili a un live dei Wilco. Che sembrano ormai contenere perfettamente le moltitudini della musica "americana": l'impronta dylaniana e ancora più indietro la matrice folk-country, la capacità di farsi jam e di sfidare il caos alla maniera dei Crazy Horse e dei Grateful Dead, il senso di comunità-famiglia dei Jefferson Airplane, l'idea di laboratorio permanente e di pensiero collettivo che fu della Band, il gusto per la sperimentazione figlio della Chicago degli anni post. Il tutto filtrato da una sensibilità pop che viene fuori persino nei momenti di pura astrazione.
Succede anche in Cousin, che arriva a meno di un anno da quella sorta di testamento definitivo che era sembrato Cruel Country, un doppio-monumento che fin dal titolo pareva chiudere definitivamente il cerchio di un'intera carriera. Niente di più sbagliato: nessun cerchio da chiudere e nessun calo di tensione nel livello costante di creatività.
Cousin è l'ennesimo disco a bersaglio, un ulteriore passo in avanti fatto a braccetto con un produttore d'eccezione come Cate Le Bon (la persona giusta nel posto giusto). I Wilco c'erano e ci sono. "Is good to be alive", canta non a caso Jeff Tweedy nell'iniziale "Infinite Surprise", mentre nella pancia del brano si agitano spettri di chitarre e lancette pinkfloydiane. Anche se il tono generale è da introspezione esistenziale, da bilancio di fine giornata, più che da joie de vivre.
Lo confermano la beatlesiana "Ten Dead" - “I woke up this morning / And I went back to bed" - e la malinconica "Levee" - "Why worry about the rain and the wind / When I know it come from within" -. Persino la giocosa "Evicted", esempio perfetto di brano alla Wilco, getta subito la maschera - "I'd laugh until I'd die if it wasn't my life / If he wasn't me in the mirror" -, tra rimpianti, occasioni perdute e rassegnazione alla solitudine - "Maybe I'm a whistle on a lonely old train / I'm crying all the time" -. Insomma, siamo dalle parti di "Ode to Joy", anche se l'atmosfera è meno rarefatta. E anche se c'è una sorta di luce di fondo che rischiara e riscalda anche gli angoli più bui.
Tweedy si guarda dentro, come sempre, e quello ci racconta di sé stesso, e di noi, è tutta la fatica, ma anche la felicità, di avere a che fare con le cose della vita. "Sunlight Ends" è una quasi dichiarazione d'amore, "A Bowl and a Pudding" un abbraccio consolatorio, "Cousin" una danza macabra, "Pittsburgh" un'ipotesi di ballata che sa di confessione a cuore aperto - "I've always been afraid to sing / That's a little thing / Somehow that's all I do / Strange as that seems".
Si chiude con "Soldier Child", altra canzone stupendamente alla Wilco, e con la ventata di speranza di "Meant to Be", a parere di scrive l'apice della scaletta. Credevate che i Wilco non avessero più qualcosa di nuovo da dire? Poveri stolti: vi sbagliavate di grosso.