La metamorfosi pop di White Denim
La band statunitense diventa progetto individuale del tuttofare James Petralli
Dopo undici album realizzati nell’arco di una quindicina di anni, attraversando le forche caudine del Covid White Denim ha affrontato la transizione da band a progetto individuale del cantante e chitarrista James Petralli, che dalla nativa Austin si è trasferito frattanto con la famiglia a Los Angeles.
Il mutamento di assetto e scenario ha provocato effetti rilevanti sul piano espressivo, di cui è testimonianza il nuovo lavoro, intestato alla posizione occupata nel catalogo discografico. Se in passato, suonando rock dall’accento vagamente psichedelico con sfumature “prog” e rhythm’n’blues, il gruppo aveva conquistato un rango da fenomeno di culto, adesso le ambizioni sembra siano differenti: “Qualcuno lo considererà un cambiamento drastico, ma io credo sia un’evoluzione naturale”, ha spiegato l’interessato, che per indirizzare il proprio cammino ha usato come stelle polari un disparato assortimento di artisti, dagli Scritti Politti di Cupid & Psyche a Lee “Scratch” Perry passando da Jonathan Richman. Indicatore della direzione di marcia è il brano d’apertura, “Light On”: esercizio pop dal retrogusto jazz al tempo stesso sofisticato e spensierato (a dispetto del disagio manifestato a un certo punto: “Amico, a volte è difficile restare vivi”).
Anziché arroccarsi nella dimensione da solista, Petralli ha scelto di ampliare a dismisura il ventaglio degli interlocutori, arrivando a coinvolgere nel processo creativo un’abbondante trentina di collaboratori: “In questo disco ci sono molte band, a volte in sala con me e altre a chilometri di distanza”. Esemplare il caso di “Swinging Door”, numero di soul lisergico – “È più facile essere santi che sani di mente” – dove compaiono addirittura quattro batteristi e tre bassisti, mentre nel disinvolto andamento funk di “Look Good” si apprezzano in particolare i contributi delle coriste Tameca Jones e Jessie Payo.
La dotazione strumentale è vasta: in “We Can Move Along” spiccano le decorazioni affidate ai fiati (con Jesse Chandler dei Midlake), quando sono viceversa gli archi ad arrotondare la punta di spleen nella costruzione country di “Hand Out Giving”. Altrettanto esteso è il campionario stilistico, che spazia dall’indolenza lounge del conclusivo “Precious Child” a una ballata da Marvin Gaye con gli occhi azzurri qual è “I Still Exist” (“La disperazione è la cosa più sacra”, il verso chiave), fino all’ostentata eleganza di “Second Dimension”, con intonazione di voce e design “jazzy” di scuola Steely Dan.
Impregnato di umori rétro da anni Settanta, 12 è album gradevole a un ascolto epidermico, zeppo di ingegnosi sotterfugi sonori se gli si dedica maggiore attenzione e comunque ammirevole nella freschezza dell’ispirazione che lo pervade.