La Valchiria torna a Roma

All’Opera in forma di concerto il primo atto della prima giornata della Tetralogia wagneriana

Die Walküre (Foto Fabrizio Sansoni)
Die Walküre (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Die Walküre, atto I
06 Ottobre 2023

Cosa sta succedendo a Wagner in Italia? Al Teatro dell’Opera di Roma si è ascoltata ora Die Walküre (ma solo il primo atto e in forma di concerto) a cinquantasette anni dall’ultima rappresentazione, mentre dall’inizio del secolo scorso fino al 1966 era stata rappresentata completa e in forma scenica in media ogni quattro anni per un totale di sedici edizioni (due dirette da Erich Kleiber, l’ultima da Eugen Jochum). Poi più niente, tranne un’esecuzione in forma di concerto, come quella odierna ma integrale, diretta da Giuseppe Sinopoli nel 1999.

Il crollo nelle esecuzioni wagneriane non riguarda solamente Roma. Forse il Gesamtkunstwerk non è in sintonia con questa nostra epoca neobarocca, forse i personaggi wagneriani ci sembrano molto lontani da noi, anche se le regie moderne hanno tolto loro l’elmo con le corna, e non riusciamo a sintonizzarci con quei miti nibelungici, che suonano un po’ falsi ed infatti sono un rimaneggiamento ottocentesco di saghe di mille e passa anni più antiche. Perfino i vecchi libretti italiani dell’Ottocento suonano più moderni, perché, pur con mille ingenuità e goffaggini, parlano di esseri umani come noi e di sentimenti eterni. Eppure alla fine di questo concerto gli applausi sono esplosi strepitosi, entusiastici: ma allora il mago Wagner riesce ancora ad incantare chi l’ascolta e i nostri teatri lo trascurano soltanto perché troppo impegnativo da mettere in scena?

Non è una questione che si possa risolvere nell’introduzione alla cronaca di un concerto, quindi passiamo oltre e andiamo al dunque. Dirigeva Omer Meir Wellber, che sarà il prossimo Generalmusikdirektor della Staatsoper di Amburgo, dove si potrà fare una più vasta esperienza wagneriana. Per dire, finora ha diretto sette produzioni di Aida  e sei di ToscaButterflyDon Giovanni ma una sola della Walküre.  Non è solamente la statistica a dirci che non ha molta confidenza con Wagner, perché già lo si intuisce dalla fisicità del suono e dalla potenza esplosiva della tempesta nell’introduzione orchestrale: è tutto molto travolgente ma diventa “solo” una tempesta, e che tempesta, ma non si avvertono il destino che persegue Siegmund e la sua estrema e disperata stanchezza. Questa fa presagire che, come poi effettivamente sarà, Wellber si trova pienamente a suo agio con le scene di drammaticità più immediata e teatrale, come l’ingresso violento e minaccioso di Hunding, il duetto d’amore tra Sieglinde e Siegmund e il finale, quando Siegmund estrae la spada conficcata nel tronco del frassino e i due si riconoscono fratelli gemelli, ma questo non frena ma eccita ancor più la loro “ebbrezza” e il loro “furente ardore”: un doppio coup de théâtre concentrato in una manciata di secondi, un finale in tutti i sensi clamoroso. Qui Wellber è efficacissimo, dissipa con sonorità squillanti e tempi veloci le nebbie nibelungiche ed esalta la forte drammaticità, per non dire melodrammaticità, di quei momenti. Ma nelle lunghe narrazione gli manca il passo del fondista wagneriano, non riesce a plasmare il discorso musicale, che già di per sé non è molto vario e pregnante ma così diventa piuttosto piatto e monotono. L’orchestra risponde al direttore con entusiasmo, al prezzo di qualche breve momento nei punti più accesi in cui non tutto è perfettamente sotto controllo.

I tre cantanti seguono inevitabilmente l’impostazione del direttore, accendendosi nei passaggi più emotivi e drammatici e spegnendosi negli altri. Allison Oakes (Sieglinde) è una esperta wagneriana ma rivela la sua partecipazione a quel che canta più con le espressioni del viso che con la voce, che soltanto a momenti si scalda. Stanislas de Barbeyrac è un tenore lirico non un heldentenor: meglio così, perché Siegmund non è Siegfried. La voce dal bel colore e dalla robustezza inaspettata (la duplice invocazione “Walse” all’inizio della terza scena è impressionante per la forza e per la lunghezza del fiato) è perfetta per il duetto d’amore, ma in altri momenti la sua interpretazione è piuttosto piatta. Brindley Sherratt è un Hunding monolitico e minaccioso, come deve essere.

 

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