Aureliano ritorna al ROF
La regia di Mario Martone ritorna al festival pesarese in una validissima interpretazione musicale
La seconda opera del Rossini Opera Festival del 2023 è stata Aureliano in Palmira, che esordì nel 1813 al Teatro alla Scala di Milano con un grande fiasco, tanto che Rossini pensò di recuperarne alcune parti in opere successive: in particolare la Sinfonia fu trasportata di peso nel Barbiere di Siviglia, opera in cui si riascolta anche il tema del coro iniziale, che finisce in bocca ad Almaviva quando canta la serenata “Ecco ridente in cielo”. Nel 1813 il ventunenne Gioachino non era del tutto privo di esperienza in questo genere operistico, avendo già composto due opere serie, preferì muoversi ancora sul terreno sicuro della tradizione, d’altronde ogni teatro aveva le sue regole non scritte, cui era prudente attenersi: in particolare la Scala, che non era allora il più importante teatro italiano, conservava molto dello stile settecentesco dell’opera seria, come i soggetti tratti dalla storia antica, prevalentemente romana, che erano un implicito omaggio all’imperatore, cioè dapprima gli Asburgo e nel 1813 Napoleone. Il tutto ambientato in scenografie grandiose.
Anche quanto alla struttura musicale, nell’Aureliano poco è cambiato rispetto all’opera seria settecentesca: ampi pezzi concertati per l’introduzione e i finali d’atto, per il resto una sfilza di arie, tra cui s’inseriscono pochi pezzi d’insieme, tra cui o brilla uno splendido, dolcissimo duetto dal sapore belliniano tra due voci femminili (in realtà alla prima milanese Arsace era un castrato non un contralto donna). Rispetto al secolo precedente era però molto aumentato lo spazio del coro, che restava comunque un elemento di contorno con funzioni più che altro decorative. Dunque non c’è niente di particolarmente nuovo e originale, eppure il meccanismo funziona benissimo, se non gli si chiede troppo. Le arie hanno scorrevoli melodie non particolarmente memorabili ma non prive, secondo i casi, di dolce e penetrante espressività o di tensione drammatica o di aulica nobiltà, che corrispondono grosso modo alle tre situazioni chiave riproposte in modo piuttosto ripetitivo dal libretto di Felice Romani, anch’egli giovane e quasi esordiente, ovvero l’amore inscalfibile tra Zenobia regina di Palmira e il suo prode alleato Arsace, la loro ferrea determinazione a non cedere ai romani nonostante le ripetute sconfitte e la magnanimità dell’imperatore romano Aureliano, pronto a dimostrare loro la sua clemenza ma anche irritato dalla loro ostinata resistenza. Il tutto è coronato da un incongruo lieto fine (nella realtà Zenobia ebbe una fine tragica) che anche musicalmente non è il momento migliore dell’opera.
Il direttore George Petrou è uno specialista del periodo barocco e in particolare di Haendel e probabilmente proprio questo lo ha aiutato a seguire amorevolmente il dipanarsi delle melodie, a valorizzare attentamente le particolarità del fraseggio e a cogliere chiaramente i vecchi modelli (l’aria in prigione, l’aria guerriera) che ancora emergono in alcune arie. Non lo ha aiutato invece a dare all’Aureliano tempi più rapidi e incalzanti, più rossiniani insomma. Il bilancio complessivo è più che positivo. Per merito proprio o del direttore, l’Orchestra Sinfonica G. Rossini è apparsa molto cresciuta rispetto agli scorsi anni.
Anche le voci hanno ben servito il giovane Rossini. Zenobia era Sara Blanch, un soprano leggero che sta evolvendo verso parti più drammatiche: la voce è immacolata, luminosa, agile, assolutamente impeccabile e non le manca il fervore nei momenti drammatici, però non ha ancora quell’energia virile e guerriera che questa fiera regina dovrebbe avere. Raffaella Lupinacci, che ritornava al festival pesarese dopo vari anni, era il coprotagonista Arsace e ha dimostrato una grande maturazione sia come voce che come interprete, candidandosi a interpretare altri ruoli rossiniani en travesti. Il terzo protagonista era Alexey Tatarintsky, che nell’ardua parte tenorile di Aureliano si è fatto apprezzare, se non per il timbro piuttosto ingrato, per la sicurezza e per gli acuti svettanti, talvolta però esibiti e tenuti al di là del necessario. Alessandro Abis e Marta Pluda si sono fatti valere nei ruoli minori ma nient’affatto trascurabili del Gran Sacerdote e di Publia, cui spettano un’aria ciascuno ed ampi interventi nei pezzi d’insieme. Bene anche Sunnyboy Dladla (Oraspe), Davide Giangregorio (Licinio) ed Elcin Adil (un pastore). Lo spettacolo era quello già visto nel 2014 al Teatro Rossini, ed ora rimontato nella Vitrifrigo Arena, subendo alcuni inevitabili adattamenti. Il trasferimento non gli ha molto giovato, perché l’indiscutibile capacità di Mario Martone di fare teatro con pochissimo – scene ridotte al minimo e recitazione minimalista – aveva funzionato nel raccolto Teatro Rossini, anche se meno bene di altre volte, ma l’amplissimo palazzo dello sport ha fatto sembrare tutto lontano, freddo, perfino povero.
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