Penguin Cafe, lo spirito continua
Torna la Penguin Cafe di Arthur Jeffes, sulle orme del padre
Scriveva il caustico Karl Kraus in uno dei suoi aforismi gelidi e arroventati assieme che un aforisma, per l'appunto, è «o una mezza verità, o una verità e mezzo». Mutatis mutandis, si potrebbe applicare lo stesso nucleo di rilevanza a certi proverbi: colgono nel segno ma lasciando lievemente insoddisfatti, o, al contrario, a volte travalicano se stessi e il mero enunciato e attingono altri significati.
La gloriosa e svaporata Penguin Cafe Orchestra guidata da Simon Jeffes, prime tracce discografiche in un 1976 che ci pare pura e scintillante cristalleria d’epoca ha spesso fatto uso, con beffardo understatement, di proverbi e detti. Rientra nella passione tipicamente inglese per i calembour, i giochi con le parole, la semantica che scivola via dalle mani diventando dorata sabbia nonsense, vedi alla voce limerick. Storie che raccontano non raccontando. O viceversa.
– Leggi anche: Penguin Cafe, minimalismo antartico
Così è successo che quando ha inciso un disco dal vivo a Londra, pubblicato nel 1988, Simon Jeffes l’ha intitolato When in Rome. Che è in realtà la metà di un detto British. Al completo sta a significare “Quando sei a Roma, adotta le usanze dei romani”. Messo così, troncato, sembrerebbe un “Quando noi della Penguin eravamo a Roma”.
Anno di (scarsa) grazia 2023. Simon Jeffes se n’è andato sulle nuvole allo scorcio del 1997 a suonare la sua chitarra pinguina. Dieci anni dopo suo figlio Arthur Jeffes, pianista, percussionista, suonatore di ukulele e cuatro, per omaggiare il padre tiene un memorabile concerto in cui risuonano ancora le note impossibili della Penguin Cafe orchestra: accorate e ironiche al contempo, un ossimoro del pentagramma avvicinabile ai giocattoli sonori di Satie.
Rinasce la Penguin Cafe Orchestra, nome però accorciato in Penguin Cafe, nuovi membri, stesso spirito: un piccolo miracolo, un’epifania verificabile nei tre lustri che sono seguiti e nella meraviglia di quattro dischi che sembrano incominciare dove i Pinguini di Simon s’erano fermati. Con archi, piano, trovarobato musicale “etnico” raccattato da ogni angolo del Pianeta. E un continuo aiuto a Greenpeace.
Adesso arriva lo splendido Rain Before Seven…, e si chiude un altro cerchio, con un’altra citazione lasciata a metà: il criptico “Pioggia prima delle sette…” è metà di un altro detto popolare inglese: “Se piove prima delle sette, arriva il bel tempo entro le undici”.
Inizio dolcemente travolgente, con una cinematica "Welcome To London" incardinata sull’ostinato di un balafon, primo struggimento con il tintinnio sagace e malinconico di "Temporary Shelter From the Storm", tripletta assicurata con "In Re Budd", puro spirito giocoso pinguino per omaggiare il grande Harold Budd con una filastrocca sonora da bambini impertinenti. E così via, con struggimenti vari che riescono sempre a restare a un pelo dall’abisso dell’autocompiacimento e regalare grandi gioie, che era poi il segreto di Simon.
Ribadito con un altro gioco di citazione a chiudere il tutto, esercizio ludico ben poco nascosto: "Goldfinch Yodel", con le sue quartine ribattute che scaturiscono da una nebbia colorata. Papà Simon sorride compiaciuto, dal cielo artico pinguino.