Caleidoscopica Orchestra Cherubini

Ravenna Festival e Ferrara Musica ospitano due fra i più esaltanti concerti della Cherubini guidata da un Muti in stato di grazia, con la partecipazione “aristocratica” di Támas Varga.

Muti, Varga (Foto Zani Casadio)
Muti, Varga (Foto Zani Casadio)
Recensione
classica
Ravenna, Palazzo Mauro de André
Muti, Varga
20 Luglio 2023 - 21 Luglio 2023

Dopo la tradizionale tournée ad ampio raggio che Riccardo Muti compie da oltre un quarto di secolo con il Ravenna Festival sulle Vie dell’Amicizia, il Maestro è tornato sul podio della sua Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” per un più breve tour fra Ravenna e Ferrara, capace di esaltare le potenzialità di quella che s’impone ormai come una delle maggiori orchestre italiane. Il programma stesso sembrava scelto a tale scopo, con partiture che portano allo scoperto, una dopo l’altra, le prime parti di ogni sezione strumentale, puntualmente onorate con applausi individualizzati che il Maestro non mancava di richiamare al termine di ogni brano, in una lunga e festosa carrellata di ovazioni. Quella ricchezza di giovani al di sotto dei trent’anni, selezionati con il massimo rigore dalle “prime parti” di prestigiose orchestre europee presiedute dallo stesso Muti, ha dato vita dal 2004 a una continuità artistica senza pari in Italia, che si mantiene ormai salda nel rapido ricambio generazionale (ogni strumentista resta in orchestra per un solo triennio) e che si spera possa continuare ancora a lungo a tali livelli, per la ricchezza formativa che offre a questi giovani orchestrali.

La doppia esibizione in due ambienti tanto diversi – lo sterminato Palazzo Mauro De André a Ravenna, con necessità di amplificazione del suono, e l’elegantissimo Teatro Comunale di Ferrara, un gioiello di acustica, surriscaldato il primo, piacevolmente accogliente il secondo – con un programma assai variegato ha sottolineato la versatilità di questa orchestra, in cui s’inserivano per l’occasione anche strumenti più insoliti, dalle chitarre ai mandolini, dalla batteria alla fisarmonica.

A richiederli era in particolare la suite dalla colonna sonora del film Il padrino, quella che all’inizio degli anni ’70 portò Nino Rota all’attenzione del grande pubblico. Muti si è gettato a capofitto nelle melodie voluttuose di tali pagine, ottenendo dall’orchestra suoni pastosi e fraseggi trascinanti di grande seduzione espressiva: qui come altrove, infatti, non s’intimidisce mai nel far risuonare in tutto il loro calore le melodie “strappacuore” di certo repertorio italiano, senza privarle del necessario pathos, ma restando pur sempre un passo indietro dall’eccesso, dalla caduta di gusto; ed anche in questo caso le espansioni espressive sono state dosate con perizia estrema, per un piacere d’ascolto totale.

Ancora al suo amato Rota – cui lo legano occasioni biografiche fondamentali e al quale Muti non ha mai nascosto piena riconoscenza – era dedicato il brano più ampio della doppia serata: il secondo Concerto per violoncello e orchestra (1973), di stile spiccatamente neoclassico, specie nel suo primo movimento. A interpretarlo era chiamato Támas Varga, primo violoncello dei Wiener Philarmoniker da oltre un ventennio, modello di eleganza nel gesto austero, che fa sembrare facile anche il passo più arduo. Ma la maggior ammirazione era suscitata dall’intonazione ognora impeccabile, senza mai un suono sporco o incerto, e sempre nella massima naturalezza esecutiva. Con il concerto di Dvořák, Varga – ancora con Muti e la Cherubini – ci aveva già catturati a Ravenna, nei primi concerti estivi dopo la pandemia del 2020; e come allora ha voluto eseguire quale bis un brano composto dal figlio adolescente Konrád Varga, scegliendo in questa occasione la riflessione sonora suscitata in lui da un colloquio di tre anni fa con Muti sul significato del termine musicale Adagio, inteso come tempo di esecuzione Ad agio.

Una caleidoscopica Orchestra Cherubini si è imposta nella seconda parte del concerto grazie a due partiture fantasmagoriche che Muti pratica da molti decenni, quali sono Il cappello a tre punte (Suite n. 2) di Manuel de Falla e il Bolero di Maurice Ravel, brani entrambi appropriati per mettere in luce i singoli strumentisti, non ultimi i ben sei esecutori che si alternavano alle tante percussioni. Se, con la prima partitura, l’interpretazione di Muti è da sempre travolgente, per le folate di Aragona che ti fa respirare ad ogni ritorno della jota nella «Danza finale», con il Bolero l’atteggiamento è invece sottilmente analitico, quasi distaccato, fin nel gesto direttoriale che perlopiù si astiene dall’intervenire, demandando la guida dell’orchestra ad occhiate eloquentissime.

Fra l’esecuzione ravennate e quella ferrarese non si sono notate particolari differenze, fatta salva la diversa qualità acustica delle due sale, portandoci ovviamente a preferire il teatro di antica concezione architettonica. Qualche piccola incertezza nei singoli assoli del Bolero eseguito a Ferrara è stata controbilanciata da una gestione ancor più calibrata della dinamica nel lungo, lunghissimo crescendo di suono e di emozione. E in entrambi i casi un plauso meritatissimo va al giovane Tommaso Scopsi, che ha sciorinato con aplomb assoluto i 15 minuti di ostinata scansione ritmica sul tamburo.

Nell’ormai immancabile e sempre atteso discorsetto finale, Muti ha voluto esaltare una volta di più il valore dei suoi giovani orchestrali, ricordando che nel 2024 cadrà il ventennale dell’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”: un traguardo importantissimo, che non trova però adeguato riscontro in un paese sempre troppo povero di orchestre e sempre più sordo alla musica del passato

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