A Francoforte va in scena l’altro Tristano

L’Oper Frankfurt ripropone “Le vin herbé” di Frank Martin dopo la cancellazione causa pandemia

Le vin herbé (Foto Barbara Aumuller)
Le vin herbé (Foto Barbara Aumuller)
Recensione
classica
Frankfurt am Main, Opernhaus
Le vin herbé
07 Luglio 2023 - 16 Luglio 2023

Nella tormentata stagione 2020/21, la più colpita dalla pandemia, doveva tappare il buco lasciato dalla cancellazione di Der Traumgörge di Zemlinsky, che si vedrà invece nella prossima stagione. La prima, inizialmente prevista il 27 novembre 2020, era poi slittata il 3 dicembre ma inevitabile era stata la capitolazione davanti a una delle tante ondate pandemiche del periodo. In questa stagione, finalmente senza intoppi, Le vin herbé di Frank Martin è tornato nel cartellone dell’Oper Frankfurt in chiusura di stagione con l’etichetta di riallestimento non avendo ancora mai avuto un battesimo davanti al pubblico.

Il vino “herbé”, ossia drogato, del titolo si riferisce al filtro magico che fa innamorare fatalmente Tristano e Isotta sulla via delle nozze con re Marke. I protagonisti del lavoro del compositore svizzero sono infatti gli stessi dell’opera di Richard Wagner anche se diversa è la fonte utilizzata: fra le innumerevoli versioni del racconto, Wagner scelse quella di Gottfried von Straßburg per sfondarla debitamente, mentre Frank Martin scelse Le Roman de Tristan et Iseut pubblicato nel 1900 dal medievalista e filologo francese Joseph Bédier, risultato di un paziente e accurato lavoro di ricucitura e traduzione in francese moderno di frammenti di autori diversi di epoca medioevale, da Béroul a Thomas, a Eilhart senza omettere lo stesso Gottfried von Straßburg e altri ancora. Linguaggio musicale a parte, radicalmente diverso e decisamente novecentesco è anche il modo in cui Frank Martin tratta il materiale drammatico del suo “oratorio profano”, composto fra il 1938 e il 1941. Rispetto all’opera wagneriana, la vicenda si arricchisce di numerosi personaggi ed eventi ma resta intatta nel nucleo drammaturgico, ossia l’amore per effetto del filtro che segna anche il tragico destino dei due amanti: “C’est votre mort que vous avez bue”, dirà ai due sventurati l’amica Branghen, resasi conto che i due hanno bevuto inavvertitamente il filtro destinato invece allo sposo destinato a Iseult.

Anche l’organico scelto da Martin è decisamente insolito e non-wagneriano: tre solisti per i ruoli di Tristan, Iseut e re Marc, un coro, che presta anche le voci ai vari ruoli minori, e un ensemble strumentale fatto di sei archi solisti e un pianoforte. Lontanissimo dal mondo anche sonoro wagneriano, Le vin herbé è un racconto strutturato in un breve prologo, tre parti (“Il filtro”, “La foresta di Morois” e “La morte”) e un epilogo. Il libretto “oggettivizza” l’esposizione dei fatti, affidando al coro il filo della narrazione e la morale finale rivolta a “tutti gli innamorati” in una sorta di dialogo con il pubblico: “possano trovare qui consolazione per la volubilità, l’ingiustizia, l’amore non corrisposto, il dolore e tutte le pene d’amore”. È come se il romanzo di Bédier riprendesse vita attraverso la forma musicale.

Che si sia pensato ad allestire questo lavoro in epoca di pandemia non sorprende visto soprattutto l’organico ridotto richiesto, che tuttavia ha obbligato ad adottare particolari accorgimenti per tenere separati gli interpreti in scena. La soluzione adottata dallo scenografo Karoly Risz è una grande costruzione lignea divisa in 32 spazi isolati con la forma di un libro aperto, le cui “pagine” mostrano individualmente i protagonisti della vicenda e i membri del coro mossi in geometrie complesse immaginate dal regista Tilmann Köhler (e fedelmente riprodotte da Orest Tichonov). Una soluzione che, nella sua semplicità, funziona benissimo soprattutto in questa composizione dalla doppia natura. La dimensione oratoriale viene rispettata nella staticità dell’impianto corale (fatte salve le disposizioni variabili dei coristi nelle varie celle per le diverse scene) e nella severità dei costumi di Susanne Uhl, con una dominante nera tranne per il sontuoso abito bianco di Isolde e le altre donne della storia. Allo stesso tempo non è sacrificata l’azione, affidata per lo più ai due protagonisti, che, evadendo dalla gabbia di convenzioni dell’ordine sociale simbolicamente rappresentato dalla grande costruzione della scena, abbandonano le loro celle per vivere la loro storia finalmente liberi. Anche se in termini astratti e facendo spesso ricorso a figurazioni simboliche (e il sofisticato disegno luci di Jan Hartmann è componente essenziale), la vicenda è svolta con esemplare chiarezza e un ritmo incalzante non interrotto da pause per le poco meno di due ore di durata.

Altrettanto riuscita è anche l’esecuzione musicale, che ha due appassionati protagonisti in Juanita Lascarro e Rodrigo Porras Garulo, non meno che nel re Marc di Kihwan Sim, efficace nel manifestare il dissidio interiore fra desiderio di vendetta e pietà. Ben caratterizzati anche i personaggi minori, tutti affidati a membri dell’ensemble del teatro, cioè Clara Kim (Branghien), Cláudia Ribas (la madre di Iseut), Jarrett Porter (Hoël), Theo Lebow (Kaherdin) e Cecelia Hall (Iseut dalle Bianche mani). Fondamentale l’apporto del Coro dell’Oper Frankfurt istruito da Tilman Michael. In buca Takeshi Moriuchi guida con dedizione e sensibilità i sei archi della Frankfurter Opern- und Museumsorchester e il pianista André Dolabella attraverso la preziosa scrittura di Frank Martin, un capolavoro di sapienza teatrale. Di rilievo i dolenti assoli del violino di Ingo de Haas, spalla dell’orchestra, che esprimono il dolore più di tante parole.

La stagione è ormai agli sgoccioli e il pubblico un po’ manca ma quello presente festeggia tutti con generosi applausi.

 

 

 

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