Il Festival d’Aix en Provence fra musica e teatro
Novecento storico e due novità di George Benjamin e Philip Venables al centro dell’edizione annuale Festival d’Art Lyrique della città provenzale
Quest’anno il Festival d’Aix-en-Provence attraversa molti generi. Sulla carta è ancora un “festival d’art lyrique” ma il direttore generale Pierre Audi spinge in direzioni diverse e riduce a pochi i titoli davvero classici dell’edizione 2023 e per di più presentati in gran parte in versione di concerto. Ancora una volta la l’omaggio alla vocazione mozartiana delle origini è ridotta a un solo titolo in cartellone nella culla primigenia del Théâtre de l’Archevêché – Così fan tutte con il Balthasar Neumann Ensemble diretto da Thomas Hengelbrock e regia e scene di Dmitri Tcherniakov – e tre classiconi come Le prophète di Giacomo Meyerbeer con la direzione di Mark Elder, Otello di Giuseppe Verdi con la direzione di Michele Mariotti e Lucie de Lammermoor di Gaetano Donizetti con la direzione di Daniele Rustioni, l’evento di chiusura del festival, vengono proposti in forma concertante. Per il resto, largo spazio al Novecento storico e al contemporaneo, vero interesse dell’edizione 2023.
Brecht e Weill per vigilare sul fascismo della porta accanto
Lo stesso titolo scelto per l’inaugurazione ha dato la cifra a questa edizione: niente opera all’Archevêché ma il teatro di Bertolt Brecht con le musiche in forma di canzoni e ballate di Kurt Weill de L’opera da tre soldi. Thomas Ostermeier, regista di rango in area tedesca (e Leone d’Oro della Biennale Teatro nel 2011), per la prima si misurava con un lavoro non strettamente musicale e con la troupe della Comédie-Française, da ormai diverse stagioni alla ricerca di nuove strade espressive per non morire di (soli) Molière, Corneille e Racine. Delle diverse versioni esistenti de L’opera da tre soldi, presentata in una nuova traduzione francese di Alexandre Pateau, la scelta è caduta sulla versione del 1928, la prima, perché “più compatta e più diretta” secondo Ostermeier, con l’aggiunta di una nuova canzone inedita “Pauv’ Madam Peachum” del 1937 su un testo di Yvette Guilbert ma soprattutto di un paio di versi coniati per l’occasione, regolarmente autorizzati degli eredi di Brecht, e cantati in coda agli applausi per esortare gli spettatori a non abbassare la guardia sul fascismo che abita proprio accanto a noi. Sottolineatura che ha un sapore un po’ didascalico in un testo che, nonostante il secolo o quasi di vita, non ha perso il vigore del suo messaggio politico. Nessuna ovvia attualizzazione, invece, ha ispirato la chiave estetica scelta per lo spettacolo, a parte le azzeccate scelte stilisticamente eteroclite dei costumi di Florence von Gerkan. La scena di Magda Willi è una scatola nera praticamente vuota, salvo qualche microfono con asta sul proscenio, un praticabile mobile, tre colonne sbilenche, sulle quali scorrono didascalie luminose, e tre ledwall pendenti con forme diverse, che rimandano le immagini e i video di Sébastien Dupouney che evocano l’utopia comunista che attraversa l’Europa di un secolo fa e la sua fine attraverso un immaginario che richiama la grafica di certo futurismo russo.
Un po’ diseguale, soprattutto nella versatilità fra recitazione (curatissima) e canto (generalmente non memorabile), la prova della “troupe” della Comédie-Française. Se un po’ sottotono e poco carismatici sono soprattutto il Macheath (ossia Mackie Messer) di Birane Ba e la Jenny di Elsa Lepoivre, se la cavano molto meglio Christian Hecq e Véronique Vella, la coppia dei Peachum dai marcati tratti comici, e Marie Oppert, la figlia Polly timidamente lunare. Molto divertente l’assortita pattuglia degli sgherri di Macheath, cioè Nicolas Lormeau, Sefa Yeboah, Jordan Rezgui e Cédric Eeckhout, come lo stralunato Tiger Brown di Benjamin Lavernhe. Se il teatro la fa da padrone, la musica comunque non manca e Maxime Pascal alla testa dell’ensemble Le Balcon mette tutto l’impegno per dare risalto al caustico materiale musicale uscito dalla penna di Kurt Weill.
La ricerca della felicità e le rivoluzioni prossime future
Fra le novità del cartellone 2023, molto attesa era la nuova opera di George Benjamin, Picture a day like this, ancora una volta su un libretto di Martin Crimp, andata in scena per numerose repliche, in gran parte da tutto esaurito, nel raccolto Théâtre du Jeu de Paume. Si tratta di una favola, una favola triste. Una donna ha appena perso il figlio, che, come dice lei stessa nel breve monologo di apertura, “aveva appena cominciato a pronunciare delle frasi complete.” Durante la sepoltura del piccolo corpo, una donna l’avvicina e le consegna una pagina strappata da un vecchio libro: quella pagina l’aiuterà a trovare una persona davvero felice che, consegnandole un bottone strappato dalla sua manica, restituirà la vita al bambino. Comincia così la sua ricerca disperata che la porta prima a una giovane coppia “aperta” di innamorati, della cui violenta rottura sarà causa involontaria, quindi a un artigiano felice ma solo grazie alla molecola di chlorpromazina da cui è dipendente, a una giovane compositrice “realizzata” ma intrappolata nella frenetica rincorsa al successo e angosciata all’idea di perderlo, e a un ricco collezionista, che nasconde nell’accumulo di oggetti preziosi l’abisso di solitudine nella quale si è costretto. Quando ormai la speranza sta per spegnersi, la donna legge fino in fondo la pagina del libro e arriva in un giardino incantato. È il giardino di Zabelle, la creatura che potrà restituirle la felicità perduta?
La risposta è in un finale a sorpresa, che lasciamo scoprire agli spettatori futuri di questo prezioso lavoro, che, come tutte le favole, è aperto alle interpretazioni più diverse (l’opera arriverà prossimamente anche al Teatro San Carlo di Napoli, fra i numerosi coproduttori del lavoro con Londra, Strasburgo, Opéra Comique di Parigi, Lussemburgo e Colonia). Non dà risposte la musica composta da George Benjamin, impalpabile e dalla timbrica raffinata, efficacissima a evocare atmosfere sospese e sottilmente inquietanti anche grazie all’impeccabile esecuzione degli strumentisti della Mahler Chamber Orchestra diretti dallo stesso Benjamin. Non meno riuscite le prove degli interpreti, a cominciare da Marianne Crebassa, la donna protagonista, sempre in scena, resa con toccante vibrante intensità emotiva e ricchezza espressiva. Non meno riuscite le prove di John Brancy, impegnato nel doppio ruolo dell’artigiano e del collezionista, quest’ultimo reso efficacemente nella trattenuta disperazione, di Beate Mordal, l’amante gelosa e la vacua compositrice, e di Cameron Shahbazi, l’amante compulsivo e il presuntuoso assistente della compositrice. Convince meno invece Anna Prohaska, presenza fin troppo corposa per l’enigmatica figura di Zabelle.
Molto minimalista ma “giusta” la messa in scena a quattro mani di Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma. Tre pareti riflettenti chiudono il piccolo palcoscenico per definire soprattutto uno spazio mentale, che diventa meno austero solo nel giardino di Zabelle, evocato dalle immagini video di Hicham Berrada.
Di segno totalmente diverso l’altra novità del cartellone 2023 presentata sulla scena sotterranea del Pavillion Noir a soli pochi giorni dal debutto al Manchester International Festival: The Faggots and Their Friends Between Revolutions di Philip Venables, che firma le musiche, e Ted Huffman, che firma il testo e la regia. Lavoro di difficile classificazione secondo i generi canonici, è una “fantasia barocca” (definizione ufficiale) che trae spunto dall’omonimo libro, anche quello inclassificabile secondo i generi comuni, diventato di culto specialmente nel milieu “queer” statunitense ma non solo, scritto nel 1977 da Larry Mitchell e illustrato da Ned Asta. Si tratta di una storia del mondo riletta attraverso le lenti della cultura queer e segnata diverse rivoluzioni: le prime hanno distrutto le grandi culture delle donne e visto il trionfo degli uomini, con la conseguenza che “tutto ciò che era diverso da loro è stato considerato inferiore e quindi degno solo di abuso, disprezzo ed estinzione” (citazione dal libro); le seconde rivoluzioni hanno reso molti meno poveri e un piccolo gruppo di uomini senza colore molto ricco. Questa è l’epoca in cui i “faggots” (termine non proprio politicamente corretto per definire gli omosessuali) e i loro amici hanno “abbastanza da mangiare e più che abbastanza tempo per pensare a cosa significhi essere vivi mentre iniziano le terze rivoluzioni.” E in attesa di queste terze rivoluzioni che vedranno la completa liberazione dei “faggots” anche dai modelli comportamentali imposti dagli uomini (matrimonio compreso), nell’immaginaria città di Ramrod, dominata da “Warren-And-His-Fuckpole” (lasciamo la traduzione ai lettori), che è il più paranoico e quindi il più feroce degli uomini, si canta e si balla.
È più che possibile che i più ossessionati dal “gender” riescano a spaventarsi davanti a questo spettacolo per molti versi ingenuo ma sicuramente divertente, che in realtà è molto vicino ai musical libertari anni Settanta tipo Hair, forse con qualche velleità intellettuale in più, nel quale l’auspicata “era dell’Acquario” non è molto diversa da quella che si fantastica nascere dalle terze rivoluzioni. Molto riuscita la prova dei quindici giovani interpreti – eccoli: Yshani Perinpanayagam (che dirige anche il traffico musicale), Kerry Bursey, Jacob Garside, Katherine Goforth, Kit Green, Conor Gricmanis, Deepa Johnny, Mariamielle Lamagat, Eric Lamb, Themba Mvula, Meriel Price, Collin Shay, Joy Smith, Sally Swanson, Yandass – che se la cavano benissimo come attori, cantanti, danzatori e strumentisti, come nel saggio finale di una scuola di arti performative o in un musical “off” appunto, e danno mostra di muoversi bene nelle diverse declinazioni dell’alfabeto LGBTQ+. La musica composta (o assemblata?) da Philip Venables strizza spesso l’occhio al barocco a cominciare dallo strumentario che prevede anche un clavicembalo, una viola da gamba, un’arpa barocca, liuti e tiorbe fra i vari strumenti impiegati. Per non farsi mancare nulla, c’è anche il momento di coinvolgimento del pubblico invitato a cantare una canzoncina/filastrocca che racconta di come a Ramrod l’unico modo per distinguere i sani dai pazzi è vedere chi ha le chiavi: i sani hanno le chiavi, i pazzi no…
Il Novecento di Berg e Stravinskij
Ben rappresentato nel programma 2023 è anche il Novecento storico, si diceva, attraverso due figure cardine: Alban Berg e Igor Stravinskij. Il primo è rappresentato con una edizione “de luxe” del Wozzeck dei due Simon, Rattle in buca e McBurney sul palcoscenico, allestito al Grand Théâtre de Provence. Il primo firmava un’esecuzione musicale levigatissima e un po’ asettica nella sua precisione e chiarezza quasi matematiche. Complice la leggendaria alta professionalità della London Symphony Orchestra che non sbaglia un colpo nemmeno negli accidentati percorsi disegnati da Alban Berg per il suo racconto di un alienato, che ancora una volta ha le fattezze e la classe vocale di Christian Gerhaher.
Anche in questo allestimento lo spazio scenico disegnato da Miriam Buether è definito attraverso pochi elementi: tre scure pareti altissime, che si aprono in finestre e varchi, e due anelli concentrici rotanti al centro del palcoscenico. Il resto sono pochi oggetti portati in scena a vista (una porta, qualche sedia, un lavabo per l’ambulatorio del sadico dottore). I costumi di Christina Cunningham sono tutti dal segno quotidiano tranne le divise simbolo del potere. Le bellissime luci fredde e impietose di Paul Anderson e le proiezioni di Will Duke scandagliano e esibiscono il tormentato vissuto di Wozzeck, di Marie e del loro universo intimo. La regia di McBurney, di esemplare linearità, inventa poco ma ha il pregio di far scorrere il racconto dei fatti nella loro inesorabile tragicità. Si concede solo una sommessa ma coerente invenzione nel finale, che suggerisce che il figlio, improvvisamente rimasto solo davanti a un anonimo condominio di una qualche periferia urbana, è destinato a seguire il padre Wozzeck nella sottomissione a un qualche potente di turno, che qui ha le fattezze di un bambino che già indossa i simboli del potere.
Accanto a Gerhaher, un cast vocale senza smagliature da Malin Byström, un’allucinata Marie, Thomas Blondelle, un insolente Tamburmaggiore, Brindley Sherratt, gelidamente sadico dottore, a Robert Lewis, un Andres sommessamente lirico, fino a tutti i ruoli minori. Di grande spessore anche scenico l’apporto dell’Estonian Philharmonic Chamber Choir preparato da Lodewijk van der Ree, così come le voci bianche della Maîtrise des Bouches-du-Rhône istruite da Samuel Coquard.
Con Stravinskij e i suoi Ballets Russes invece si balla. No, anzi: si va al cinema. Per il secondo anno, il festival esce dalle mura della città per trasferirsi nel brutalismo cementizio dello Stadium della vicina Vitrolles. Dopo il Mahler di Resurrezione della scorsa edizione, è la volta delle tre composizioni più note commissionate fra il 1910 e il 1913 al compositore dall’impresario Sergej Pavlovič Djagilev per la sua compagnia dei Ballets Russes, da cui il titolo della serata che di danza non ha traccia (con buona pace della spettatrice, tanto delusa quanto poco informata, che inveiva contro il personale di sala durante l’intervallo per la presunta truffa ai suoi danni). Niente danza, dunque, ma cinema: tre lavori commissionati a tre cineasti Rebecca Zlotowski, Bertrand Mandico e Evangelia Kranioti per accompagnare (per una volta, non il contrario) rispettivamente le musiche de L’uccello di fuoco, Petruška e Le Sacre de Printemps, eseguite in ordine rigorosamente cronologico.
Se un denominatore comune i tre film, peraltro molto diversi fra loro, hanno il proposito di sottrarsi a qualsiasi legame ovvio con il materiale narrativo dei balletti che ispirarono le musiche di Stravinskij e dal folklore russo alla base dell’estetica del compositore, anche se rielaborato con un linguaggio musicale proiettato sulle avanguardie di inizio Novecento. Nel primo, Rebecca Zlotowski ricostruisce atmosfere fra cinema muto e psicanalisi, ma finisce per incartarsi in un gioco di specchi fra realtà e sogno dal quale non riesce ad uscire in modo convincente. Nel secondo, Betrand Mandico si ispira all’avanguardia giapponese anni Settanta e l’estetica estrema di Shūji Terayama per proiettare la vicenda della marionetta Petruška in un inquietante universo sotterraneo di mannequin al servizio di una sadica stilista guercia con benda diamantata. Nel terzo, il più riuscito perché più sganciato dall’urgenza narrativa, Evangelia Kranioti sceglie piuttosto il linguaggio documentaristico/antropologico per un parallelo fra riti ancestrali brasiliani e sottocultura urbana tra spunti ecologisti e violenze omofobe.
Nell’immenso catino di cemento dello Stadium, sotto il grande schermo e davanti alla tribuna del pubblico, trova posto l’Orchestre de Paris in gran spolvero. Nonostante un calore da sauna, il giovane direttore Klaus Mäkelä guida l’esecuzione musicale con un’energia straordinaria durante le tre ore della lunga serata senza alcun calo di tensione, mantenendo un controllo ferreo sui suoi strumentisti. Al contrario, la tensione sale ed esplode in una esecuzione memorabile de Le Sacre du Printemps da togliere il respiro per la forza travolgente che accompagna ogni passaggio. Un vero trionfo per il direttore d’orchestra finlandese che, se non azzera la componente visiva della serata, certamente solleva più di una domanda sul senso di questa produzione.
La Russia torna anche nella serata che ha visto protagonista Asmik Grigorian, per la prima volta al Festival di Aix-en-Provence, accompagnata dal pianista Lukas Geniušas in una selezione di romanze di Pëtr Il'ič Čajkovskij e di Sergej Rachmaninov alternate a pezzi per pianoforte dei due compositori. La scaletta non brilla per varietà di temi e “affetti”, ma mette in mostra soprattutto l’ottimo senso del teatro del soprano lituano. Grande successo e, chissà, appuntamento al 2024 su uno dei tanti palcoscenici di Aix-en-Provence?
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