PJ Harvey tra sacro e profano
Il nuovo lavoro di PJ Harvey I Inside the Old Year Dying è un’estensione del suo romanzo in versi Orlam
Eravamo rimasti con PJ Harvey a The Hope Six Demolition Project, album inserito in un ambizioso trittico aperto da un libro e chiuso da un documentario realizzato girando fra i mali del mondo, frutti entrambi della partnership con il fotografo irlandese Seamus Murphy.
Al termine della tournée seguente, tuttavia, l’artista inglese era insoddisfatta: «Mi sono sentita perduta», ha confidato di recente a “Crack Magazine”, «sentivo la necessità di ritemprarmi, ma anche di rinfrescare la mia immaginazione, avevo davvero bisogno di tornare nel sottobosco a frugare sotto le foglie».
Da ciò è derivato il romanzo in versi pubblicato nel 2022, Orlam: scritto impiegando vocaboli dell’arcaico dialetto del Dorset, terra di origine dell’autrice, racconta con toni da realismo magico l’odissea di Ira-Abel Rowles, bimba che strada facendo perde l’innocenza.
I Inside the Old Year Dying – decimo lavoro da solista in una carriera ultratrentennale – ne è diretta ramificazione discografica, poiché offre una dozzina di canzoni create adattando parti di quel testo. “Mentre l’infanzia moriva, l’anno vecchio fece riapparire il Soldato, il frassino incorniciava la notte e il giorno, mentre lei pregava al cancello”, gorgheggia squillante ma vulnerabile all’inizio di “Prayer at the Gate”, in apertura di sequenza. E nella successiva “Autumn Term”, fra dissonanze e melodie a spigoli, canta in falsetto: “Salgo tre gradini verso l’inferno, lo scuolabus si arrampica sulla collina”.
Sul piano narrativo l’opera prende quota con “Lwonesome Tonight”, ballata fragile e intimista al centro della quale si erge la figura cristologica di Wyman-Elvis: “Sei Elvis? Sei Dio? Gesù inviato per conquistare la mia fiducia? Le sue parole sono: ‘Love Me Tender’, come io ti ho amato, così tu devi…”, citando Presley e parafrasando il Vangelo di Giovanni. L’analogia con Nick Cave, antico amore di Polly Jean, è ineludibile, in particolare addentrandosi nell’oscurità blues di “Seem an I”: “Un’infanzia di malattia e assenzio, di non amici che corrono verso il nulla, di nebbia che avvolge l’altrove, di voce materna che non chiama, di lamiera ondulata, di gazze e whisky, di agnelli e ubriachi”.
A confezionare l’arredo sonoro in cabina di regia, combinando elementi sintetici e rumori rubati alla natura, sommati agli strumenti tradizionali, sono due fedeli compagni d’avventura, John Parish e Flood, abili nell’alternanza dei registri: dall’ambient “difettosa” che accoglie il madrigale “All Souls” con la sua trafila di sventure (“Prima una nebbia cremisi, seconda l’insonnia, terzo un tentativo fallito, quarta la solitudine”) al folk d’impronta medievale articolato in “A Child’s Question, July”, dove – duettando con l’attore Ben Whishaw – Harvey evoca presenze inquietanti (“Che c’è là dietro? Il pene del diavolo? Un demone arrapato? Dio caprino? Cos’è Dio in forma terrena? Uno oppure un’infinità di occhi enormi?”).
Datata invece agosto, l’altra “domanda infantile” – titolo mutuato da una poesia di Coleridge – aleggia in una voliera (“Gli sciami di storni saranno presto in fuga, i corvi raccontano storie attraverso il grano, il cuculo si congederà presto, i rondoni abbandonano il dolore dell’autunno, cosa dicono il passero, il tordo e la colomba?”) e allude al Macbeth.
Non è l’unico riferimento a Shakespeare: aperta da un adagio popolare (“Marzo cercherà, aprile proverà, maggio ti dirà se vivrai o morirai”), la spettrale “The Nether-Edge” recita un passo dell’Amleto (“C’è chi sta sveglio e chi assopito, e così gira il mondo”), per chiudersi poi nel nome di Giovanna d’Arco, “una non ragazza bruciata sul rogo”.
L’entità letteraria della trama, sviluppata al confine tra sacro e profano, non soffoca affatto la musica, che suona ad esempio prepotente all’epilogo: riecheggiando il “rumore silenzioso” descritto da Keats, “A Noiseless Noise” cresce via via d’intensità, prima di sfociare nell’arrendevole esortazione conclusiva: “Adesso torna a casa amore, smettila di vagare”. All’opposto, è diafano il fascino di “I Inside the Old I Dying”, quando – sorretto da un arpeggio tenue – va in scena il rito di passaggio: “Mi spoglio per lui, scivolo dalla mia pelle di bambina, mi muovo a zig zag attraverso la foresta, plano sul vicolo di campagna e rido tra le foglie”.
Cercando sé stessa e specchiandosi in Ira-Abel, PJ Harvey ha ritrovato l’ispirazione selvatica degli esordi: questo rende speciale I Inside the Old Year Dying.